Intercettazioni: sì alle microspie nei tablet

Intercettazioni: sì alle microspie nei tablet
Non mina la privacy il “captatore informatico” installato sul dispositivo dell’indagato per associazione di tipo mafioso

Ammesse le intercettazioni ambientali tramite “captatore informatico” (trojan) installato sul tablet dell’indagato per associazione di tipo mafioso.
Il Tribunale di Palermo, sezione per il riesame, ha confermato, attraverso un’ordinanza dello scorso 11 gennaio, il provvedimento del G.I.P. che aveva applicato nei confronti dell’indagato la misura della custodia cautelare in carcere, in quanto sussistenti gravi indizi di colpevolezza.

In sede di riesame, la difesa ha proposto istanza ex art. 309 c.p.p. deducendo l’inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni ambientali disposte con decreto autorizzativo, in violazione degli artt. 15 Cost., 8 CEDU, 266, co. 2 e 271 c.p.p., nonché l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza, con conseguente richiesta di annullamento del titolo.

In particolare la difesa ritiene che l’autorizzazione al P.M. di “disporre le operazioni d’intercettazione di tipo ambientale delle conversazioni tra presenti che avverranno nei luoghi in cui si trova il dispositivo elettronico in uso” sia illegittima perché l’avere legato la captazione ad un apparecchio elettronico (tablet), ovunque esso si trovi, la estenderebbe anche in un luogo di privata dimora, aggirando l’obbligo di motivazione sulla attualità dell’attività criminosa in quel luogo.

A ciò si aggiunge la ritenuta genericità dell’autorizzazione (“all’interno dei luoghi in cui è ubicato il seguente apparecchio”) che, non circoscrivendo e individuando i luoghi della captazione e così consentendola “in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio”, non sarebbe ammissibile, richiedendo l’art. 15 della Costituzione, l’art. 266, co. 2, c.p.p. e l’art. 8 CEDU che nelle intercettazioni ambientali venga specificato il luogo delle conversazioni al fine di dare garanzia effettiva, con riserva di legge e riserva di giurisdizione, alla compressione di valori inviolabili quali la libertà e la segretezza delle comunicazioni.

Sul tema, invero assai delicato, il giudice ha precisato che, quanto alla prima doglianza, siccome si procede per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non sia affatto obbligatorio motivare sul fatto che vi sia fondato motivo di ritenere che nella privata dimora si stia svolgendo l’attività criminosa.

Per risolvere la seconda questione, invece, il Collegio ritiene che il provvedimento autorizzativo del G.I.P. contenga comunque nel caso concreto, sufficienti e specifiche garanzie contro un’indiscriminata intrusione dell’attività investigativa nella libertà e segretezza delle comunicazioni, delineandone con precisione le coordinate ed i confini.

Dal contenuto della motivazione del decreto di autorizzazione all’intercettazione, infatti, non solo si evince la specificazione del rapporto di pertinenzialità tra il dispositivo intercettato ed il reato per cui si procede (consumato proprio attraverso le comunicazioni telematiche e quelle tra tutti i soggetti presenti al momento dell’uso del suddetto tablet), ma anche dei luoghi, che si indicano “nella stanza” in cui il dispositivo “è ubicato in quel momento”; si escludono, quindi, tutte le altre stanze della privata dimora dell’indagato e, contrariamente all’assunto difensivo, si aumentano le garanzie di privacy che avrebbe, di contro, offerto un’intercettazione ambientale al domicilio tout court.

Tale delimitazione garantisce che le conversazioni intercettate abbiano ad oggetto non vicende private della famiglia o dei loro ospiti (si ricorda, a tal proposito, che il trojan inserito in un pc non arriva ad intercettare a dieci metri di distanza), ma solo e soltanto l’attività criminosa svoltasi per mezzo e, per così dire, intorno al tablet usato per l’attività criminale, delimitando, quindi, ulteriormente l’ambito spaziale di intrusione nell’altrui sfera riservata.

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Omicidio stradale: niente carcere per chi fa inversione in autostrada

Omicidio stradale: niente carcere per chi fa inversione in autostrada
Una delle infrazioni più gravi al Codice della Strada ex art. 176 non rientra tra le aggravanti previste dalla nuova legge

Non scatta l’omicidio stradale per chi fa inversione in autostrada. Nell’attesa delle applicazioni pratiche della nuova legge n. 41/2016, in vigore dal 25 marzo scorso (leggi: “Da oggi in vigore la legge sull’omicidio stradale: ecco le novità e il testo”) che ha elevato a reato autonomo l’omicidio stradale e le lesioni personali stradali, una riflessione sul complicato mosaico disegnato dal legislatore, fa emergere subito alcuni punti critici, lasciati irrisolti nel lungo iter parlamentare.

Ratio della legge, infatti, è di punire severamente (con condanne al carcere fino a 18 anni oltre alla sanzione accessoria della revoca della patente), chiunque uccide o ferisce qualcuno non solo in conseguenza della guida sotto effetto di sostanze stupefacenti o in stato di ebbrezza ma anche per le infrazioni al codice della strada commesse dal c.d. utente comune.

Le misure aggravanti – con pena da 5 a 10 anni di carcere, aumentata se commessa senza patente di guida o assicurazione o se si provoca la morte o le lesioni di più persone – scattano, infatti, per l’eccesso di velocità, per chi passa con il rosso, per chi sorpassa in prossimità delle strisce pedonali così come per chi procede contromano o effettua una inversione pericolosa in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi.

Ma paradossalmente, il legislatore ha dimenticato di includere nell’impianto sanzionatorio una delle infrazioni più gravi al codice della strada, come l’inversione in autostrada ex art. 176 Cds.

Una delle condotte più pericolose, che non a caso è sempre stata punita dal codice con sanzioni amministrative tra le più alte (da 2.004 fino a 8.017 euro, oltre a revoca della patente e fermo del veicolo) non farà scattare, in caso di omicidio o ferimento, la nuova fattispecie di omicidio stradale, salvo che l’inversione di marcia non avvenga in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi con limitata visibilità.

A confermarlo è anche la recente circolare del ministero dell’Interno del 25 marzo 2016 che spiega come l’aggravante di cui al comma 5 n. 3 del nuovo art. 589-bis c.p. “ricorre in tuti i casi in cui il conducente abbia effettuato un’inversione di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi con limitata visibilità”. Se invece, “la violazione è commessa in autostrada o su una strada extraurbana principale, dove la manovra di inversione di marcia è sempre vietata – si legge nella circolare – perché sia configurabile l’aggravante occorre che il comportamento illecito sia posto in essere in prossimità o in corrispondenza di un tratto con un andamento curvilineo o caratterizzato da un dosso, in cui ovviamente la visibilità sia limitata”.

In caso contrario, dunque, per chi provoca un incidente effettuando un’inversione di marcia in un tratto autostradale scatterà solamente la multa (e le sanzioni accessorie), mentre per chi commette le altre manovre pericolose contemplate dalla legge è prevista la galera da 5 anni in su.

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Comprare borse e abiti taroccati non è reato

Comprare borse e abiti taroccati non è reato
Ma il consumatore finale paga la multa da 100 a 7mila euro

Chi si limita ad acquistare una borsa, un abito o un qualsiasi altro prodotto contraffatto non commette reato ma non si salva dalla multa che può arrivare fino a 7mila euro. Ad affermarlo è la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 12870/2016, accogliendo il ricorso di un uomo condannato in appello per ricettazione in quanto beccato con l’auto carica di capi di abbigliamento contraffatti di noti marchi.

L’uomo si rivolgeva al Palazzaccio sostenendo che essendo stato assolto dall’art. 474 c.p., in quanto consumatore finale, doveva essere assolto anche dal delitto di ricettazione, rimanendo soggetto soltanto alla sanzione amministrativa prevista dal d.l. n. 35/2005, nella versione modificata dalla l. n. 99/2009.

Per gli Ermellini il ricorso è fondato.

Ripercorrendo il contesto normativo applicabile alla fattispecie, la S.C. ha premesso che considerato che il ricorrente è stato colto nel possesso di un borsone pieno di capi di abbigliamento di noti brand che presentavano chiari segni di contraffazione (materiali, etichette, marchi, tessuto, cuciture e serigrafie non conformi agli originali) il reato in astratto ipotizzabile sarebbe la ricettazione ex art. 648 c.p. che, nella specie, ha come reato presupposto l’art. 473 cod. pen.

Tuttavia, sul quadro normativo-giurisprudenziale esistente ha inciso l’art. 1/7 del d.l. n. 35/2005 (convertito dalla l. n. 80/2005) e successivamente l’art. 17 della l. n. 99/2009, il quale punisce “con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale” oltre che con la confisca amministrativa delle cose medesime.

A seguito del nuovo contesto normativo, interpretato anche dalle sezioni unite, prosegue la sentenza, l’acquirente finale, inteso come “colui che non partecipa in alcun modo alla catena di produzione o di distribuzione e diffusione dei prodotti contraffatti, ma si limita ad acquistarli per uso personale” (cfr. n. 22225/2012), rimane perciò fuori dall’area di punibilità penale del reato ex art. 648 c.p. rispondendo soltanto dell’illecito amministrativo previsto.

Sempre che, sottolineano da piazza Cavour, il bene sia acquistato per sé e non destinato ad altri, perché in tal caso il soggetto risponde del reato di ricettazione, giacché “con la sua condotta, contribuisce all’ulteriore distribuzione e diffusione della merce contraffatta, essendo – peraltro – irrilevante se l’ulteriore diffusione avvenga a scopo di lucro o a titolo gratuito”.

Nel caso di specie, posto che la corte ha assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 474 c.p. (punto sul quale si è formato ormai il giudicato) e non si è posta il problema di verificare a che titolo lo stesso possedeva la merce sequestrata, la sentenza va annullata sul punto e la parola passa al giudice del rinvio.

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Telecamere in garage? Le riprese sono utilizzabili a fini investigativi

Telecamere in garage? Le riprese sono utilizzabili a fini investigativi.
Il box cassa di un’autorimessa non costituisce “domicilio”, per cui nessuna pretesa alla riservatezza se il luogo è aperto al pubblico e l’azione può essere osservata da estranei

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Sono utilizzabili come mezzo di prova le videoregistrazioni a fini investigativi effettuate nel box cassa di un’autorimessa, poiché questo luogo non costituisce “domicilio” nel senso di privata dimora e l’azione ripresa può essere liberamente osservata dagli estranei trattandosi di un luogo aperto al pubblico.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezione V Penale, nella sentenza 11419/2016 che ha colto l’occasione per fornire una dettagliata disamina riguardo l’utilizzabilità probatoria delle videoregistrazioni compiute a fini investigativi, tenendo presente il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità ed ermeneutico della Corte Costituzionale.

Il ricorrente è un uomo condannato per furto aggravato, commesso nella sua qualità di dipendente di un “Garage”, società alla quale aveva sottratto con mezzo fraudolento (la riutilizzazione di scontrini consegnati da alcuni clienti) i proventi incassati nella gestione del servizio di autorimessa esercitato dalla predetta società.

Dinnanzi agli Ermellini, la difesa sostiene l’inutilizzabilità delle videoriprese effettuate all’interno del box cassa a mezzo telecamera installata dagli organi di polizia giudiziaria.
In tal senso viene evidenziato come le videoriprese abbiano contenuto comunicativo e pertanto necessitano quantomeno dell’autorizzazione del giudice per essere utilizzate, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.

Inoltre, prosegue la difesa, doveva ritenersi errata la tesi per cui le videoriprese erano state effettuate con il consenso del titolare del luogo in cui venne installata la telecamera e pertanto l’imputato, e non la società proprietaria dell’autorimessa, avrebbe dovuto ritenersi il vero titolare del “domicilio lavorativo” in questione.

I giudici rammentano il consolidato orientamento secondo cui le videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico eseguite dalla polizia giudiziaria vanno incluse nella categoria delle prove atipiche, soggette alla disciplina dettata dall’art. 189 c.p.p.

Quanto a quelle eseguite all’interno del domicilio, invece, bisogna distinguere se oggetto della captazione dono comportamenti comunicativi o non comunicativi: mentre nel primo caso la disciplina applicabile è quella dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., nel secondo le operazioni di videoregistrazione non possono essere eseguite, in quanto lesive dell’art. 14 Cost..
Ne consegue che è vietata la loro acquisizione ed utilizzazione e, in quanto prova illecita, non può trovare applicazione la disciplina dettata dal citato art. 189 del codice di rito.

Nel caso in esame deve essere valutato se il box all’interno del quale il ricorrente svolgeva le sue mansioni possa o meno essere qualificato come domicilio, giacché dalla stessa dipende sia la rilevanza o meno della natura dei comportamenti captati, sia quella della eventuale necessità che gli atti investigativi venissero compiuti seguendo la procedura delle intercettazioni

Il collegio esclude che il locale summenzionato possa essere equiparato ad un vero e proprio domicilio, anche nella più vasta accezione di “domicilio lavorativo” accolta in alcuni arresti giurisprudenziale: infatti, il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza.
In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, rende il domicilio un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente.

Il box cassa non assume tali connotazioni: tale locale era di utilizzo promiscuo a tutti i dipendenti della società e le mansioni tipiche che al suo interno svolgeva l’imputato venivano svolte anche, secondo una programmata turnazione, da altri suoi colleghi.

La Cassazione ricorda che il giudice delle leggi, nell’occuparsi di questi temi (Corte Cost. n. 135/2002, ma soprattutto n. 149/2008), ha avuto modo di precisare come, affinché sussista la tutela di cui all’art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento attinente alla sfera personale venga tenuto in luoghi di privata dimora; occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi.

Se l’azione, invece, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non può accampare una pretesa alla riservatezza e le videoregistrazioni a fini investigativi soggiacciono al medesimo regime valevole per le riprese visive in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

In tale ipotesi, secondo la Corte Costituzionale, le videoregistrazioni non differiscono dalla documentazione filmata di un’operazione di osservazione o di appostamento, che ufficiali o agenti di polizia giudiziaria potrebbero compiere collocandosi, di persona, al di fuori del domicilio del soggetto bersaglio.

Viene in conto cioè, quale criterio dirimente, quello della visibilità non protetta di tale luogo, che lo caratterizza per l’appunto come luogo esposto al pubblico. Correttamente dunque i giudici dell’appello hanno posto l’accento sul fatto che il box avesse un’ampia vetrata che rendeva visibile all’esterno ciò che avveniva al suo interno.

Il ricorso va rigettato e al ricorrente non resta che il pagamento delle spese processuali e la refusione di quelle di parte civile.

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Gioco del calcio: la scriminante dell’accettazione del rischio, il fatto non costituisce reato

Gioco del calcio: la scriminante dell’accettazione del rischio, il fatto non costituisce reato.
Gli eventi lesivi causati nel corso di gare e nel rispetto delle regole del gioco scriminati per l’operare della scriminante atipica

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Con la sentenza n. 9559 dell’8 marzo 2016, la Cassazione penale, sezione quarta, seguendo l’opinione più diffusa e convincente in materia, aderisce al principio enunciato, escludendo invece l’operatività di una tale scriminante nei seguenti casi:

“a) quando si constati l’assenza di collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva;

b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso (a tal ultimo riguardo, un conto è esercitare un agonismo, anche esacerbato, allorquando sia in palio l’esito di una competizione di primario rilievo, altro conto quando l’esito non abbia una tale importanza o, ancor meno, se si tratti di partite amichevoli o, addirittura, di allenamento);

c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività”.

Si esclude, invece, l’antigiuridicità del fatto e quindi l’obbligo del risarcimento allorquando: “a) si tratti di atto posto in essere senza volontà lesiva e nel rispetto del regolamento e l’evento di danno sia la conseguenza della natura stessa dell’attività sportiva, che importa contatto fisico;

b) pur in presenza di una violazione della norma regolamentare, debba constatarsi assenza della volontà di ledere l’avversario e il finalismo dell’azione correlato all’attività sportiva”.

Tali conclusioni implicano l’opzione per la causa di giustificazione atipica “a cagione della difficoltà d’inquadrare la pur necessaria ragione che esclude l’antigiuridicità degli esiti di danno, derivanti dallo svolgimento di attività sportiva, in una delle fattispecie regolate espressamente dalla legge”.

Si esclude, in particolare, la possibilità di invocare la scriminante del consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 cod. pen., in quanto non può giungere “fino a giustificare lesioni irreversibili dell’integrità fisica e financo (in alcune discipline) la morte”; parimenti quella dell’esercizio del diritto, ex art. 51 cod. pen., la quale “non consentirebbe di escludere dall’area della penale responsabilità tutte quelle condotte che, pur commesse in violazione del regolamento che disciplina la singola disciplina sportiva, non risultino esuberare l’area del rischio accettato”.

Costituisce, infatti, secondo la sentenza in esame, un sapere largamente condiviso “la constatazione che l’esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva che implichi l’uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) della forza fisica, costituisce un’attività rischiosa consentita dall’ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, che dall’imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti”.

La Cassazione evidenzia, altresì, che “il rischio consentito non è misurabile in astratto. Il perimetro di esso è la risultante di un attento vaglio del caso concreto (…). Esso è proporzionale alle caratteristiche e al rilievo della competizione”.

Si è inoltre specificato che “l’area consentita è delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro, deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell’agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè, quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando della circostanza del gioco”.

Nella fattispecie in esame l’infortunio è maturato in un frangente di gioco particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell’incontro di una partita di calcio del campionato serie Eccellenza).

L’atto era manifestamente indirizzato ad interrompere l’azione di contropiede della squadra avversaria, mediante il tentativo di impossessarsi regolarmente del pallone.

La condotta del calciatore, giudicato colpevole dal giudice di merito del reato di cui all’art. 590, commi 1 e 2 c.p., viene ritenuta invece dalla Cassazione meritevole di censura solo nell’ambito dell’ordinamento sportivo, “non già perché smodatamente violenta (la pienezza agonistica qui era giustificata dal contesto dell’azione, dal momento di essa e dagli interessi in campo), bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell’avversario che già aveva allungato la sfera in avanti; ma certamente non sconfina dal perimetro coperto dalla scriminante” atipica dell’accettazione del rischio.

La sentenza impugnata viene dunque annullata senza rinvio poiché il fatto ascritto all’imputato “non costituisce reato”.

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Falsificare l’assicurazione non è più reato

Falsificare l’assicurazione non è più reato.

Per la Cassazione, manca il reato presupposto in quanto prima dell’utilizzazione la contraffazione è fatto penalmente irrilevante.

Niente ricettazione se il contrassegno assicurativo è falso. Lo ha stabilito la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 11013/2016, depositata il 16 marzo scorso.

Nel caso di specie, in particolare, il ricorso era stato proposto da un cittadino giudicato colpevole del reato di ricettazione per aver esposto un contrassegno assicurativo RC auto falso.

A tal proposito la Corte di cassazione ha invece precisato che tale falsificazione materiale commessa da un soggetto privato che ne faccia uso mediante esibizione sull’autovettura non integra il reato di ricettazione ma, piuttosto, quello di falsità in scrittura privata.

Dato che, però, oggi la falsità in scrittura privata è stata spazzata via dalla depenalizzazione (precedente al deposito della sentenza ma successiva alla sua emanazione), la questione diventa ancora più interessante: non solo niente ricettazione se il contrassegno assicurativo è falso ma addirittura niente reato!

Si badi bene però: resta esclusa l’ipotesi in cui il modulo contrattuale e il relativo contrassegno provengano a loro volta da reato. In tal caso infatti, come sottolineato dalla stessa Cassazione nella sentenza in commento, si rientra nell’ipotesi di cui all’articolo 648 c.p..

In sostanza i giudici hanno affermato chiaramente di condividere quanto già statuito dalla medesima Corte con la sentenza numero 16566 del 17 marzo 2009, le cui motivazioni sono state in parte trascritte.

In esse si leggeva, infatti, che l’articolo 485 del codice penale stabilisce che ai fini della sussistenza del delitto di falsità in scrittura privata non basta la contraffazione della scrittura, ma è necessario anche che l’autore della falsità o altra persona ne faccia uso.

Se quindi l’imputato esibisce sul parabrezza della propria auto un certificato assicurativo contraffatto, la sua responsabilità non può che essere quella prevista da tale articolo, senza che a ciò rilevi che l’utilizzatore del documento non coincida con l’autore della falsità.

Del resto, prima dell’utilizzazione la contraffazione del documento è un fatto che non rileva penalmente, con la conseguenza che la consegna del documento da parte dell’autore della contraffazione o di chiunque altro al soggetto che concretamente lo utilizzerà non può essere reputata idonea a integrare gli estremi della condotta del delitto di ricettazione: manca, infatti, il reato presupposto.

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Cassazione: anche ingigantire un fatto vero è reato

Cassazione: anche ingigantire un fatto vero è reato.

È comunque configurabile il reato di calunnia quando il fatto oggetto della falsa incolpazione ha natura più grave di quello posto in essere.

Non solo mentire attribuendo a qualcuno una colpa inesistente, ma anche ingigantire un fatto allo scopo di farlo apparire più grave di quello realmente posto in essere è reato.
Così la sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9874/2016 (depositata il 9 marzo), ha confermato la condanna nei confronti di un uomo per il reato di calunnia per aver “infarcito” una narrazione vera con particolari “volutamente falsi integranti autonomi e distinti profili di responsabilità penale”.

Nella specie, l’imputato portato in caserma dai carabinieri, intervenuti nel corso di una rissa ingaggiata dallo stesso con alcuni cittadini stranieri per motivi connessi alla compravendita di sostanze stupefacenti, subiva lesioni e violenze da parte degli agenti, realmente accertate con sentenza definitiva.

Ma, l’uomo non si limitava a raccontare i fatti nudi e crudi, bensì a colorire il racconto denunciando una falsa circostanza aggravante, ossia la lesione dello sfregio permanente del viso e l’avulsione di un dente, procurata da un pugno che in realtà non era attribuibile ai due carabinieri.

Per il giudice di merito, non c’è dubbio sulla sussistenza del reato di calunnia, poiché l’uomo aveva denunciato una condotta diversa posta in essere dagli accusati della cui falsità egli “era pienamente consapevole”.

Anche per gli Ermellini, il ragionamento del giudice di merito è corretto e a nulla valgono le doglianze della difesa che sosteneva che pur a voler ritenere accertata la falsità del racconto, la stessa non avrebbe comportato alcuna modifica essenziale della condotta effettivamente realizzata dagli accusati e, in ogni caso, la modifica della qualificazione giuridica del fatto.

Il reato di calunnia, hanno sostenuto infatti dal Palazzaccio, sussiste “anche quando il fatto, oggetto della falsa incolpazione, sia diverso e più grave di quello effettivamente commesso dalla persona incolpata, condizione che si verifica allorché la diversità, incidendo sull’essenza del fatto, riguardi modalità essenziali della sua realizzazione, che ne modifichino l’aspetto strutturale e incidano sulla sua maggiore gravità ovvero sulla sua identificazione”.

Nella specie, l’imputato, si legge in sentenza, “non si è limitato alla enfatizzazione dei fatti narrati o alla loro ricostruzione con modalità particolarmente allarmanti, ma ha compiuto una descrizione nella quale denunciava un fatto che incideva sull’essenza degli illeciti denunciati e sulla qualificazione giuridica della condotta degli agenti ai quali è valso la contestazione del reato di cui all’art. 583 c.p., da altri commesso in danno del ricorrente”.

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Niente falso ideologico per il dottore commercialista che attesta un piano di concordato preventivo

Niente falso ideologico per il dottore commercialista che attesta un piano di concordato preventivo.

E’ quanto chiarisce la quinta sezione penale della Corte di Cassazione.

Niente falso ideologico per il dottore commercialista che attesta un piano di concordato preventivo. Il motivo? Non si tratta di pubblico ufficiale.

Proprio sulla base di tali argomentazioni, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza numero 9542/2016 depositata l’otto marzo, ha respinto il ricorso con il quale il Pubblico Ministero, contrariamente al Tribunale di Nuoro, ribadiva, invece, la configurabilità del reato.

Correttamente, per la Corte, il Tribunale ha posto in evidenza il fatto che nella norma manca un’espressa attribuzione al professionista commercialista della qualità di pubblico ufficiale, qualità invece riconosciuta dalla legge fallimentare ad altri soggetti delle procedure concorsuali (si pensi, ad esempio, al curatore, al commissario giudiziale e al commissario liquidatore).

Sulla base di tale elemento, oltretutto, già la stessa Cassazione aveva escluso, come ricordato nella sentenza in commento, la qualità di pubblico ufficiale in capo al liquidatore giudiziale nominato nella procedura di concordato preventivo.

Non c’è dunque motivo per ritenere che lo stesso ragionamento non debba ritenersi valevole anche per il commercialista che sia incaricato di redigere la relazione circa il piano di fattibilità della procedura.

Tutto ciò senza dimenticare che comunque l’attestazione posta dal professionista non vincola il controllo di legittimità che il giudice comunque esercita sul giudizio di fattibilità del concordato e che la valutazione nel merito su tale giudizio è affidata ai creditori.

Di conseguenza, le funzioni del commercialista sono quelle di un consulente che, peraltro, non restano strumentali solo all’esercizio dell’attività giudiziaria.

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Criticare un bar su Facebook non è reato

Criticare un bar su Facebook non è reato.

Non si tratta di diffamazione ma di espressione del diritto di critica poiché riferite a un locale pubblico.

Affidare ai social network le proprie opinioni, positive e negative, è ormai una prassi consolidata: ma cosa succede se il cliente insoddisfatto cui proprio quel locale non va giù arriva al punto di creare un gruppo su Facebook il cui nome incita all’abolizione del locale stesso e i cui contenuti si traducono in commenti negativi sulla sua attività?

Per il Tribunale di Pistoia (sentenza del 16 dicembre 2015), non sono integrati gli estremi del reato di diffamazione a mezzo internet, ma si rimane nell’alveo del diritto di critica, potendosi al più ritenere che i commenti contengano espressioni ironiche goliardiche, grottesche, ma non tali da ledere l’onore e il prestigio delle parti offese.

L’imputato, cliente insoddisfatto di un bar, aveva affidato ad un gruppo su FB le sue opinioni negative sul locale, lamentando la preponderante presenza maschile nel locale, la pessima composizione dei drink offerti e la ristrettezza del locale.

Ma per il Tribunale, tali espressioni si riferiscono ad attività svolte in un pubblico esercizio ed in particolare alla qualità scadente dei servizi offerti, circostanza che non può comportare alcuna diffamazione.

Si tratta di nient’altro che una scherzosa e ironica recensione di un locale pubblico da parte di clienti insoddisfatti, espressa con ironia e manifestazione del diritto di critica costituzionalmente tutelato che, laddove si eserciti nei confronti di un locale pubblico, dilata i suoi confini: chi si pone sul mercato, infatti, accetta il rischio di critiche qualora i servizi offerti non soddisfino le aspettative di coloro che ne usufruiscono, tanto più quanto tali servizi non sono gratuiti

Sono molteplici i precedenti giurisprudenziali che hanno valorizzato il potere esimente del diritto di critica tratteggiandone i confini: deve, in primis, essere accertata l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico e, in aggiunta, devono utilizzarsi modalità di espressione proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazioni degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.

Pertanto, nel rispetto del c.d. canone della “continenza” deve trattarsi di una forma espositiva strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione.

Non è dunque vietato l’utilizzo di “coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale”, essendo scriminati termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti.

I suddetti principi, applicati al caso di specie, determinano l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste.

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Per la responsabilità dei 5 sanitari coinvolti nel noto caso Cucchi va verificato il nesso eziologico tra omissione ed evento lesivo

Per la responsabilità dei 5 sanitari coinvolti nel noto caso Cucchi va verificato il nesso eziologico tra omissione ed evento lesivo.

Torna nelle mani della Corte d’Assise d’Appello di Roma il destino del caso di Stefano Cucchi, il trentenne romano deceduto il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare.

Il nuovo processo d’appello dovrà verificare se sussistono condotte omissive a carico dei 5 medici che hanno avuto in cura il giovane, in modo da stabilire se, “ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l’evento lesivo ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 9831/2016 pubblicata il 9 marzo.

Gli Ermellini sottolineano l’insufficienza del percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale, in termini di carenza di adeguata motivazione su di un punto decisivo ai fini dell’indagine sulla responsabilità degli imputati, ossia l’individuazione della causa naturale della morte di Stefano Cucchi.

L’esatta individuazione della “causa materiale” della morte del giovane, cioè della patologia che ne ha determinato il decesso, rappresenta il necessario antecedente su cui innestare l’indagine sull’esistenza del nesso di causalità giuridica.

La Cassazione rammenta, infatti, come il caso in esame graviti nell’area della particolare fattispecie di “reato omissivo improprio” o “commissivo mediante omissione”, che è realizzato da chi, nello svolgimento dell’attività professionale medico-chirurgica, viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia, non impedendo il verificarsi dell’evento lesivo: in tale situazione assume valore centrale, all’interno del processo penale, “passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato”, l’accertamento del rapporto di causalità tra omissione ed evento.

Un simile nesso eziologico, affermano i giudici, sulla base dell’orientamento da tempo costante nella giurisprudenza di legittimità (tanto da potersi ormai definire in termini di “diritto vivente”), non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

Quindi, ai fini del giudizio contro fattuale, le informazioni scientifiche andranno lette in coordinato con le contingenze significative del caso concreto.

Trova così accoglimento il ricorso del pubblico ministero, il quale aveva sottolineato come la stessa decisione d’appello ritenesse mancanti certezze proprio circa il nesso di causalità tra le condotte degli imputati e l’evento: tuttavia, il giudice di secondo grado non avrebbe considerato che l’asserita mancanza di certezze deriva proprio dal comportamento gravemente negligente dei sanitari, che hanno omesso i necessari esami e valutazioni, i normali controlli e le dovute annotazioni per il corretto accertamento delle patologie.

Il giudice si sarebbe spogliato del suo ruolo critico, abdicando a favore dei “custodi del sapere scientifico” senza prendere posizione alcuna e giustificando l’assenza di colpa degli imputati stante la mancanza di linee-guida sul trattamento della sindrome, nonché, tra l’altro, per la complessità e l’oscurità del quadro patologico raccolto.

In realtà, chiarisce la Cassazione, il medico è autonomo nelle scelte terapeutiche, quindi sempre tenuto a prescegliere la migliore soluzione curativa, considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici.

Pertanto l’assenza “di precise linee-guida” non impedisce l’indagine giudiziale sul nesso causale, perché in mancanza di linee-guida, occorrerà fare comunque riferimento alle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, alle corroborate informazioni scientifiche di base, con la conseguenza che quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa del sanitario.

fonte: http://www.studiocataldi.it/