Alcoltest valido anche per chi ha soffiato poco

Alcoltest valido anche per chi ha soffiato poco
La misurazione non è inficiata dalla presenza di un “volume d’aria” minimo che, anzi, risponde al principio del favor rei

etilometroNon si sfugge alla responsabilità per guida in stato di ebbrezza, nonostante l’alcoltest rechi la dicitura “volume insufficiente”.
Tuttavia, al giudice non è consentito addebitare all’automobilista un tasso alcolemico superiore a quello misurato solo in quanto il test è avvenuto a distanza di tempo rispetto al momento in cui il prevenuto era alla guida.

Si tratta di principi stabiliti dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione, rispettivamente nelle due sentenze n. 19161/2016 e n. 19176/2016.
Nel primo caso, ricorre innanzi agli Ermellini un uomo condannato per guida sotto l’effetto di alcol, il quale si duole dell’accertata responsabilità nonostante una delle prove effettuate con alcoltest recasse la dicitura “volume insufficiente”.

In realtà come, evidenziato anche dai giudici di merito, dagli atti acquisiti emerge la penale responsabilità dell’imputato, fondata proprio sull’esito positivo dell’accertamento etilometrico mediante alcoltest.
Per i giudici della Cassazione la dicitura riportata dallo scontrino dell’etilometro non inficia di per sè l’attendibilità e la validità del test.

La misurazione, in altri termini, non può ritenersi inficiata dall’inspirazione di un volume d’aria minimo, anzi, può dirsi acquisita, in nome del favor rei, una misurazione verosimilmente inferiore per difetto al reale, della quale ovviamente il prevenuto non ha motivo di dolersi.

L’insufficienza del quantitativo d’aria immessa nell’etilometro non esclude che l’apparecchio sia in grado di rilevare il tasso di etilemia; qualora lo strumento pervenga alla misurazione dell’etilemia, nonostante il volume insufficiente d’aria in esso inspirata dal prevenuto, ma tale comunque da consentirne il funzionamento, il tasso alcolemico così riscontrato (da ritenersi inferiore a quello che si sarebbe rilevato nel diverso caso di immissione di un volume d’aria invece “sufficiente”) può essere assunto a fondamento della decisione.

Invece, nel caso della sentenza 19176/2016, ha ragione l’automobilista che è stato condannato per guida in stato d’ebbrezza alcolica, nella fattispecie più grave tra quelle previste dall’art. 186., coma 2,del Codice della strada, nonostante il tasso alcolico, misurato mediante etilometro, fosse da riferibile all’ipotesi meno grave, in quanto inferiore ad 1,5 g/I (1,49 alla prima misurazione ed 1,35 alla seconda).

La Corte di merito ha ritenuto di sussumere il fatto nella fattispecie più grave osservando che l’alcoltest, seppure eseguito a distanza di circa due ore dal momento del sinistro stradale, ha dato esito positivo, con tasso alcolemico di 1,49 e 1,35 g/l.
Nonostante il tempo trascorso i giudici hanno applicato il principio della c.d. “Curva di Widmarkg”, secondo cui la concentrazione di alcool, in andamento ascendente tra i 20 ed i 60 minuti dall’assunzione, assume un andamento decrescente dopo aver raggiunto il picco massimo di assorbimento in detto intervallo di tempo.

Si tratta, per gli Ermellini, di una motivazione illogica.
Nel fondare la fattispecie più grave, i giudici avrebbero dovuto fare riferimento a un corteo sintomatologico tale da sorreggere, con ragionevole certezza, l’affermazione secondo la quale l’imputato, a dispetto della misurazione meccanica, al momento del fatto presentava nell’organismo una presenza di alcol superiore al consentito.

Invece, nessuna base sintomatica, indipendentemente dalla verifica strumentale, è stata allegata dagli agenti che hanno effettuato la rilevazione: sicuramente, nel caso all’esame, tali sintomi univoci erano assenti, in quanto l’alito vinoso non può considerarsi tale e lo stato di agitazione dell’uomo era certamente da riconnettersi allo scuotimento emotivo scatenato dall’incidente, nel quale erano rimasti investiti due pedoni.

Inoltre, il giudice può essere fruitore, o se si vuole utilizzatore, di regole scientifiche, ma, fatta eccezione per le conoscenze facenti parte del notorio, non può porre egli la regola, che assume essere scientifica, magari credendo di apprestarle autorevolezza citando lo studioso alla quale si attribuisce la scoperta o l’affinamento della tecnica conoscitiva.

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Il reato di sostituzione di persona

Il reato di sostituzione di persona
Guida legale alla fattispecie disciplinata dall’art. 494 del codice penale

img10L’art. 494 del codice penale stabilisce che “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno.”

Interesse tutelato
Il reato di sostituzione di persona è collocato nel capo IV “Della falsità personale” all’interno del Titolo VII del codice penale dedicato ai delitti contro la Fede pubblica.

Il delitto in esame ha natura plurioffensiva, essendo preordinato non solo alla tutela di interessi pubblici ma anche di quelli del soggetto privato nella cui sfera giuridica l’atto sia destinato ad incidere.

Condotta
L’art. 494 c.p. rappresenta una norma a più fattispecie.

Per integrare il reato è sufficiente che il reo realizzi una sola delle diverse condotte previste, e non sussiste concorso tra le diverse condotte.

Il fatto costitutivo del delitto consiste nell’indurre taluno in errore tramite una delle quattro condotte indicate tassativamente dall’art. 494 c.p.:

· Sostituzione illegittima della propria all’altrui persona

· Attribuzione a sé o ad altri di un falso nome

· Attribuzione a sé o ad altri un falso stato (per stato si intende la posizione civile/politica del soggetto: cittadinanza, capacità di agire….)

· Attribuzione a sé o ad altri di una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici

Elemento soggettivo
Per la sussistenza del reato è richiesto il dolo, consistente nella coscienza e volontà di indurre in errore altri sulla vera identità della propria persona.

In particolare è necessario il dolo specifico, ovvero la volontà di procurare a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale o non patrimoniale o anche di recare ad altri un danno.

È irrilevante il raggiungimento del vantaggio perseguito.

Tentativo
Il delitto di sostituzione di persona è configurabile nella forma tentata.

Invero, quando l’agente, nonostante l’utilizzo dei mezzi fraudolenti indicati nell’art. 494 c.p.c non riesca ad indurre taluno in errore, si configura il tentativo.

Rapporti con altri reati
Il delitto di sostituzione di persona è sussidiario rispetto ad ogni altro reato contro la fede pubblica.

In forza dell’inciso “se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica” contenuto nella norma incriminatrice, il reato de quo è applicabile solo quando il fatto non costituisca un altro delitto contro la fede pubblica.

Giurisprudenza
* Cass. pen. Sez. V, 20-01-2016, n. 11918

Pronunciandosi su un ricorso contro una sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna di primo grado nei confronti di un soggetto per essersi attribuito – falsamente – la qualità di amministratore di una s.r.l. (art. 494 cod. pen.), la Corte di Cassazione – nel respingere la tesi difensiva secondo cui l’imputato era già stato condannato, con sentenza del Tribunale per il reato di truffa, commesso proprio attribuendosi falsamente la qualità di amministratore della stessa s.r.l. -, ha affermato il principio secondo cui la diversità dei beni giuridici che sono oggetto della tutela consente di affermare che, anche sotto il profilo dell’idem factum, non vi è coincidenza tra la sostituzione di persona e la truffa, perché tra il fatto giudicato e quello da giudicare non vi è coincidenza dell’intera materialità del reato nei suoi tre elementi, costituiti da condotta, evento e nesso causale, attenendo l’offesa all’evento del reato.

* Trib. Bari Sez. I, 09-04-2015

Il reato di sostituzione di persona può concorrere formalmente con quello di truffa per la diversità dei beni giuridici tutelati, ovvero la fede pubblica il primo ed il patrimonio il secondo.

* Cass. pen. Sez. VI, 17-02-2015, n. 13328

Il delitto di sostituzione di persona può ritenersi assorbito in altra figura criminosa solo quando ci si trovi in presenza di un unico fatto, contemporaneamente riconducibile sia alla previsione di cui all’art. 494 del cod. pen., sia a quella di altra norma posta a tutela della fede pubblica; per contro, si ha concorso materiale di reati quando ci si trovi in presenza di una pluralità di fatti e quindi di azioni diverse e separate. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso il concorso apparente di norme tra il reato di sostituzione di persona e quello di falso in certificazioni amministrative, di cui agli artt. 477 e 482 cod. pen., nella condotta dell’imputato che aveva esibito un documento d’identità falsificato al fine di stipulare sotto falso nome un contratto di locazione per fini illeciti, osservando che l’atto di esibizione era stato preceduto da una distinta attività di falsificazione). (Annulla in parte con rinvio, App. Milano, 22/04/2014)

*Cass. pen. Sez. V, 15-12-2014, n. 11087

Integra il delitto di sostituzione di persona la condotta ingannevole che induce il soggetto passivo in errore sull’attribuzione all’agente di un falso nome o di un falso stato o di false qualità personali cui la legge attribuisce specifici effetti giuridici, non essendo invece necessario il raggiungimento del vantaggio perseguito, che attiene al dolo specifico del reato. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta la condanna di un imputato il quale aveva fatto credere al suo anziano interlocutore di essere il figlio di un ex collega e di essere dipendente di una nota azienda di abbigliamento, al fine – non raggiunto – di vendergli della merce). (Rigetta, App. Bologna, 17/04/2014).

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Cassazione: chi ruba per fame non è un ladro

Cassazione: chi ruba per fame non è un ladro
Azzerata la condanna in appello nei confronti di un senza tetto “recidivo” che aveva cercato di portar via formaggio e wurstel da un supermercato

marketDue porzioni di formaggio e una confezione di wurstel per un valore di 4 euro. Era questo il misero “bottino” che un uomo, disoccupato, senza soldi né un tetto sulla testa aveva cercato di portar via da un supermercato solo per sfamarsi.

Per i giudici di merito, non c’è dubbio, la condotta, confermata dalla segnalazione di un “cliente” che lo aveva notato mentre si impossessava dei generi alimentari nascondendoli sotto la giacca, è valutabile come furto.

A nulla valgono le drammatiche condizioni dell’uomo, né il fatto che il reato, come sostenuto dal procuratore generale, era solo tentato, visto che lo stesso era stato bloccato dal personale che aveva ottenuto la pronta restituzione dei beni, e che in ogni caso sussistevano i presupposti per l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. anche se l’imputato era “recidivo”.

Gli Ermellini, però, danno ragione al pg.

Con la sentenza n. 18248/2016, la quinta sezione penale si discosta dalle argomentazioni della corte d’appello e conclude per la sussistenza della scriminante di cui all’art. 54 c.p.

“La condizione dell’imputato e le circostanze in cui è avvenuto l’impossamento della merce dimostrano che – l’uomo – si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità”.

Per cui, si impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

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Cassazione: spingere il viso della vittima verso i genitali non è violenza sessuale

Cassazione: spingere il viso della vittima verso i genitali non è violenza sessuale
Non può ritenersi integrato il delitto ex art. 609-bis c.p. ma soltanto un tentativo di violenza

violenzaSe un semplice bacio sulla guancia può costituire violenza sessuale, non è così per chi costringe la vittima ad avvicinare il viso al suo organo genitale nudo senza però arrivare ad un contatto fisico. Senza consumazione dell’atto sessuale si configura infatti soltanto un tentativo di violenza, per cui niente reato. Ad affermarlo è la terza sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17414/2016 depositata ieri, accogliendo il ricorso di un uomo condannato in appello per violenza sessuale, perché dopo essersi abbassato i pantaloni e aver scoperto le parti intime, aveva afferrato con la forza la vittima per la nuca, aiutandosi anche con una catena passata intorno al collo, avvicinando la testa ai suoi genitali per costringerla a un rapporto orale. Rapporto che, però, alla fine non era stato consumato, per cui, ha evidenziato il Palazzaccio, seppur restano indiscutibili le modalità violente con le quali è stata connotata la condotta dell’agente, ai fini della configurabilità della consumazione del reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p. è necessario “che la violenza o la minaccia, nella versione costrittiva dell’abuso sessuale, abbia effettivamente determinato il soggetto passivo ad una costrizione a compiere o a subire un atto sessuale, perché se le modalità della condotta (ossia la violenza o la minaccia) sono idonee e dirette a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente ma siano improduttive del risultato perseguito, si configura il tentativo di violenza sessuale e non il reato consumato”.

In altri termini, si legge nella sentenza, “per determinare la costrizione, la violenza o la minaccia devono comportare una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, mentre se sono esclusivamente idonee ed inequivoche a vincerne la resistenza, in quanto il soggetto passivo non compie o non subisce la condotta che la violenza o la minaccia esercitate nei suoi confronti erano preordinate ad ottenere, non comportano la consumazione del reato, configurando esclusivamente il tentativo punibile per mancata verificazione dell’evento”.

L’immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima si ha – ha concluso quindi la S.C. – quando l’agente raggiunge le parti intime (zone genitali o comunque erogene della persona offesa) o provoca un contatto della vittima con le parti intime proprie, essendo indifferente, in tal caso, che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo consegua la soddisfazione erotica, con la conseguenza che solo in siffatti casi può ritenersi la consumazione del reato di cui all’art. 609-bis c.p.”.

Da qui la riqualificazione del delitto come solo tentato. Parola dunque al giudice del rinvio per la rideterminazione della pena.

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Spiare le mail altrui è reato

Spiare le mail altrui è reato
Integrato il reato di accesso abusivo a sistema informatico ex art. 615-ter c.p.

Spiare la casella mail altrui per prendere visione dei messaggi nella stessa contenuti è reato. E’ integrata infatti la fattispecie di cui all’art. 615-ter c.p. (accesso abusivo a sistema informatico), giacché la casella di posta elettronica rappresenta un sistema informatico a tutti gli effetti. Sono queste le conclusioni cui perviene la quinta sezione penale della Cassazione (nella sentenza n. 13057/2016), confermando la condanna di 6 mesi di reclusione inflitta in appello ad un uomo che, approfittando della sua qualità di responsabile dell’ufficio di polizia provinciale e dell’assenza temporanea del collega (assistente nel medesimo ufficio), si introduceva nella sua casella di posta elettronica protetta da password, e dopo aver preso visione del contenuto di numerosi documenti, aprendoli, ne aveva anche scaricati due.

Al contrario di quanto sostenuto dalla difesa che aveva contestato potesse trattarsi di accesso a sistema informatico, giacché la casella di posta era personale e dunque entità diversa ed estranea rispetto alla nozione codicistica, il Palazzaccio ha ritenuto invece che la casella mail rappresenta “inequivocabilmente” un sistema informatico rilevante ai sensi dell’art. 615-ter c.p.

La Cassazione rammenta, infatti, che nell’introdurre tale nozione nel nostro ordinamento, il legislatore ha fatto evidentemente riferimento a concetti già diffusi ed elaborati nel mondo dell’economia, della tecnica e della comunicazione, essendo stato mosso dalla necessità “di tutelare nuove forme di aggressione alla sfera personale, rese possibili dalla sviluppo della scienza”.

Pertanto, conformemente alle acquisizioni del mondo scientifico, il sistema informatico inteso dal legislatore non può essere che “il complesso organico di elementi fisici (hardware) ed astratti (software) che compongono un apparato di elaborazione dati”. In tal senso si esprime anche la Convenzione di Budapest per la quale “sistema informatico è qualsiasi apparecchiatura o gruppo di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali, in base ad un programma, compiono l’elaborazione automatica dei dati”. E la casella di posta non è altro che uno spazio di memoria di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi o informazioni di altra natura (immagini, video, ecc.) di un soggetto identificato da un account registrato presso un provider del servizio. L’accesso a questo spazio di memoria concreta chiaramente un accesso al sistema informatico, giacchè la casella non è altro che una porzione della complessa apparecchiatura destinata alla memorizzazione delle informazioni.

Allorchè questa porzione di memoria sia protetta, come nella specie, mediante password, rivelando la chiara volontà dell’utente di farne uno spazio a sé riservato, ogni accesso abusivo allo stesso non può che concretare quindi l’elemento materiale del reato di cui all’art. 615-ter c.p.

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Avvocati: assicurazione, obbligo “congelato”

Avvocati: assicurazione, obbligo “congelato”
Uno dei 6 requisiti per rimanere iscritti all’albo in vigore dal 22 aprile non è ancora operativo, in attesa del decreto ad hoc

Non c’è ancora nessun obbligo di assicurarsi per rimanere iscritti nell’albo degli avvocati. Nonostante, infatti, il regolamento del ministero della giustizia (n. 47/2016) che fissa le regole per l’accertamento dell’esercizio della professione “in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente” approdato in GU nei giorni scorsi preveda espressamente tra i 6 requisiti necessari, anche quello di aver stipulato una polizza assicurativa ex art. 12 della l. n. 247/2012, manca ancora il decreto ad hoc di via Arenula.

La legge professionale forense stabilisce, infatti, all’art. 12, comma 5, che il ministero dovrà determinare, con apposito decreto, le condizioni essenziali della polizza, nonché dei massimali minimi di polizza”.

Per cui, come già affermato in tal senso dal Cnf con parere n. 35/2015 tale obbligo, pur entrando formalmente in vigore il 22 aprile prossimo, è da intendersi differito, nell’attesa del provvedimento ministeriale.

Attesa che, peraltro, non dovrebbe durare a lungo, visto che il provvedimento risulta già messo a punto dal ministero e non appena varato seguirà un iter più rapido rispetto agli altri, non prevedendo tutti i pareri indicati dall’art. 1 della legge forense.

L’obbligo assicurativo, come sottolineato dallo stesso Cnf, si ricorda, prevede due diverse fattispecie: la prima relativa alla stipula di “una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione compresa quella per la custodia di documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti”; la seconda, riguardante l’obbligo di stipulare “una ulteriore polizza assicurativa a copertura degli infortuni derivanti a sé e ai propri collaboratori, dipendenti e praticanti in conseguenza dell’attività svolta nell’esercizio della professione anche fuori dei locali dello studio legale, anche in qualità di sostituto o di collaboratore esterno occasionale”.

Avvocati: addio alle specializzazioni

Avvocati: addio alle specializzazioni
Il Tar del Lazio boccia il regolamento e accoglie i ricorsi presentati dall’Oua, dall’Anf e dai Consigli dell’Ordine

img144Una vera disfatta per le specializzazioni forensi che ieri sono state bocciate dal Tar Lazio (con le sentenze nn. 4424/2016, 4426/2016, 4428/2016) in accoglimento parziale dei ricorsi presentati dall’Oua, dall’Anf e da alcuni Consigli dell’Ordine.

Questione centrale nelle decisioni del giudice amministrativo, sulla quale si erano concentrate da subito le polemiche, è la previsione delle 18 materie di specializzazione, nei confronti delle quali il Tar va giù con mano pesante sottolineando come “né dalla mera lettura dell’elenco, né dalla relazione illustrativa del Ministero – è dato cogliere – quale sia il principio logico che ha presieduto alla scelta”. Ed infatti, si osserva in sentenza “non risulta rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze dei vari organi giurisdizionali esistenti nell’ordinamento, né infine un criterio di coincidenza con i possibili insegnamenti universitari, più numerosi di quelli individuati dal decreto”. Un elenco incompleto peraltro già rilevato dal Consiglio di Stato che si era pronunciato in sede consultiva sullo schema di regolamento, con rilievi ai quali il ministero si è adeguato solo parzialmente, senza “un unitario filo logico di selezione”.
Da qui, “considerata la delicatezza della disciplina posta e la necessaria funzionalizzazione della normazione secondaria alla perseguita finalità di rendere il mercato delle prestazioni legali più leggibile per i consumatori”, deriva l’impossibilità di condividere la tesi della difesa, secondo la quale la censura impingerebbe in una valutazione di merito riservata all’amministrazione, poiché anche le valutazioni e le scelte rimesse all’attività regolamentare “non possono sottrarsi al rispetto dei principi di intrinseca ragionevolezza e di adeguatezza rispetto allo scopo perseguito”.

Oltre all’annullamento dell’art. 3, altro punto censurato dal consesso amministrativo è la necessità dello svolgimento di un colloquio davanti al Consiglio nazionale forense da parte di chi intende ottenere il titolo di specialista contando sulla precedente esperienza, ex art. 6 del regolamento.

L’assenza di specificazioni e di definizioni puntuali è tale, a detta del Tar, “da conferire al Consiglio nazionale forense una latissima discrezionalità operativa, che, oltre ad essere foriera di confusione interpretativa e distorsioni applicative (con ricadute anche in punto di concorrenza tra gli avvocati), si pone in assoluta contraddizione con la funzione stessa del regolamento in esame, che, ai sensi dell’art. 9 della legge, è quella di individuare un procedimento di conferimento definito in maniera precisa e dettagliata, a tutela dei consumatori utenti e degli stessi professionisti che intendano conseguire il titolo”.

Ad uscire indenni invece dalla mannaia amministrativa, gli altri punti contestati, come la previsione di un numero di materie oggetto di specializzazione, la necessità di un minimum di incarichi annui nella specifica materia e, più in generale, il potere regolatorio da parte del ministero e l’attribuzione di competenze al Cnf.

Rimane comunque la ferma censura di elementi importanti che obbliga ora il ministero a procedere con una riscrittura del regolamento, salvo l’ipotesi di eventuali ricorsi, scoraggiati però dal richiamo del Tar alle originarie osservazioni formulate nello stesso senso da parte del Consiglio di Stato.

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Rumori: il condomino ha diritto di sapere quanto è rumoroso il climatizzatore del vicino

Rumori: il condomino ha diritto di sapere quanto è rumoroso il climatizzatore del vicino
Per il Tar del Lazio si tratta di un’informazione ambientale garantita dal d.lgs. n. 195/2005

come-richiedere-le-detrazioni-fiscali-per-lavori-in-condominio_9078ce84eebffd916ae1f8b0ce088037Se nel condominio c’è un impianto di condizionamento dell’aria rumoroso, il singolo condomino ha diritto a sapere a quanto ammontano le immissioni sonore che questo produce. Nel fare ciò, deve rivolgersi all’Agenzia regionale che tutela l’ecosistema.
Per il Tar del Lazio, secondo quanto esposto con la sentenza numero 4018/2016 depositata il 4 aprile scorso, quella sopra individuata è un’informazione ambientale che, come tale, trova garanzia nel decreto legislativo numero 195/2005 con il quale l’Italia ha recepito la direttiva dell’Unione Europea in materia.

Non si rimane, insomma, all’interno dei più stretti confini della normativa sulla trasparenza contenuta nella legge numero 241 del 1990: il diritto di scoprire quanti decibel produce l’impianto va tutelato pienamente.

Non importa che il climatizzatore abbia carattere privato e sia al servizio solo di alcuni negozi: l’autorità pubblica deve rendere nota l’informazione ambientale a chiunque ne faccia richiesta, indipendentemente dalla dimostrazione di un interesse.

Se poi si considera che nel caso di specie il richiedente, vivendo nello stabile nel quale si trovava l’impianto, aveva addirittura un evidente interesse qualificato, nulla gli potrebbe impedire di scoprire i decibel. Peraltro le rilevazioni Arpa erano state compiute proprio nel suo appartamento.

Insomma: la richiesta di avere maggiori informazioni sui rumori presenti in condominio è tutt’altro che irragionevole e il condomino ha diritto di ottenere risposta.

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Registrare le telefonate dei figli è reato

Registrare le telefonate dei figli è reato
La tutela della libertà e della sicurezza delle comunicazioni vale anche in famiglia

callIl rispetto della privacy è un principio consolidato e non ammette eccezioni neppure quando si parla di familiari.
Il genitore apprensivo o semplicemente curioso di scoprire cosa nascondono i figli, farà meglio a tentare la strada del dialogo, perché spiare e registrare le conversazioni della prole rappresenta un reato.

L’art. 16 della “Convenzione sui diritti del fanciullo” enuncia il principio per cui “Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione”.

Tale norma va coordinata con quanto previsto dall’art. 617 c.p. secondo cui “Chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.

Tale norma, ha chiarito la Corte di Cassazione, tutela la libertà e la riservatezza delle comunicazioni telefoniche o telegrafiche contro la possibilità di indiscrezioni, interruzioni o impedimenti da parte di terzi. In particolare il diritto alla riservatezza della comunicazione o della conversazione implica la possibilità di escludere altri dalla conoscenza del contenuto della medesima e coerentemente la norma incriminatrice menzionata punisce in tal senso anche la condotta di colui che invece ne prenda cognizione senza il consenso dei titolari.

Si tratta di un principio che vale nei confronti di tutti i soggetti, indipendentemente dal tipo di relazione, come confermano le numerose sentenze della Suprema Corte che hanno condannato i comportamenti violativi perpetrati, ad esempio, all’interno di coppie, sposate e non.
Anche tra membri del nucleo familiare, quindi, va punito chi “spia” e registra le conversazioni, anche se si tratta del genitore nei confronti dei figli, anche minorenni.

Nella sentenza n. 41192/2014, (per approfondimenti: Cassazione: è reato spiare le telefonate dei figli minorenni) la Cassazione ha infatti punito per il reato di ci all’art. 617 c.p. un uomo separato che aveva registrato le conversazioni tra la ex consorte e i figli.
Non è stata accolta la richiesta dell’imputato di avvalersi della scriminante ex art. 51 c.p., ritenendo che i figli minori non possono considerarsi “altre persone” nel senso accolto dalla norma incriminatrice, trattandosi di soggetti che non potrebbero sottrarsi alla potestà genitoriale e ai doveri di vigilanza che il suo esercizio comporta opponendo la riservatezza delle proprie comunicazioni.

Secondo gli Ermellini, ancorché minori, indubitabilmente i figli sono soggetti “altri” rispetto al padre e tanto basta per ritenere integrata la condizione di tipicità del fatto.
L’eventuale rilevanza degli obblighi di vigilanza del genitore nei confronti dei figli minori può eventualmente dispiegarsi nel momento in cui debba valutarsi l’effettiva antigiuridicità del fatto, ma certo tali obblighi non comportano una sorta di immedesimazione tra padre e figlio.

Nel senso accolto dall’art. 617 c.p., il carattere della fraudolenza qualifica il mezzo utilizzato per prendere cognizione della comunicazione (e non l’elemento soggettivo del reato come erroneamente ritenuto dal ricorrente), il quale deve essere pertanto idoneo ad eludere la possibilità di percezione del fatto illecito da parte di coloro tra i quali la stessa intercorre. In altri termini la presa di cognizione punita dalla disposizione è quella realizzata con mezzi che ne garantiscano sostanzialmente la clandestinità

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Cassazione: non punibile chi rifiuta l’alcoltest

Cassazione: non punibile chi rifiuta l’alcoltest
Definitivamente ammessa dalle Sezioni Unite la compatibilità tra ogni tipologia di reato e la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto

alcoltest2Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dichiarano in via definitiva, nella sentenza n. 13682/2016, la compatibilità tra il rifiuto di sottoporsi all’alcoltest e la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Quest’ultima fattispecie, invero, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è stato introdotto con l’art. 1, comma 2, d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28. e costituisce una innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole, rendendo così possibile l’applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.

Secondo la Corte, “il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo”.

In particolare, si osserva che il legislatore ha limitato il campo d’applicazione del nuovo istituto in relazione alla gravità del reato, desunta dalla pena edittale massima ed alla non abitualità del comportamento. Pertanto, il fatto particolarmente tenue va individuato tenendo conto di tre elementi fondamentali e necessari: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza. Si richiede, quindi una valutazione complessa che non si limiti alla considerazione della gravità della lesione del bene giuridico tutelato dalla norma infranta.

Poiché la novella fa riferimento al “comportamento” tenuto dal reo, è evidente che il legislatore abbia voluto porre l’accento sulle modalità reali della condotta, nel caso concreto effettivamente realizzato dall’agente. Proprio tale indicazione, relativa alla considerazione del fatto di reato come fatto storico concretamente realizzatosi, conduce a ritenere che non vi siano tipologie di reato escluse a priori dall’applicabilità della causa di non punibilità in questione, proprio perché le effettive modalità di realizzazione di ogni specifico reato possono essere giudicate “particolarmente tenui”, a prescindere dal titolo dello stesso.

Pertanto, tale causa di non punibilità è applicabile anche ai reati omissivi, come appunto quello concretizzato dal rifiuto di sottoporsi all’alcoltest, poiché anche in questi casi è necessaria e doverosa la valutazione delle modalità di realizzazione del reato e il comportamento concreto posto in essere dall’agente.

La Corte sottolinea che “l’esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. E potrà ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente. Da quanto precede discende che la valutazione inerente all’entità del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto”.

L’art. 186 comma 7 C.d.S. è un reato di pericolo presunto, in relazione al quale nessuna indagine è richiesta sulla fattispecie concreta e sulla concreta pericolosità in relazione al bene giuridico oggetto di tutela. E tuttavia, “accertata la situazione pericolosa tipica e dunque l’offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nei quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato”, con particolare riferimento alla valutazione della concreta offensività dei beni della vita e dell’integrità personale, che ne costituiscono l’oggetto giuridico.

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