Andare in vacanza, lasciando il cane a casa è reato

Andare in vacanza, lasciando il cane a casa è reato.

Non importa che l’animale abbia cibo e acqua sufficienti, è integrato il reato di abbandono.

canesolo1È reato “dimenticare” il proprio cane a casa per andare in vacanza. L’abbandono infatti non consiste soltanto nel lasciare il proprio animale sul ciglio di una strada, ma anche nel costringerlo a rimanere in appartamento, per partire per le ferie, seppur con cibo e acqua sufficienti.

Qualche tempo fa, ad occuparsi di una vicenda simile è stato il tribunale di Arezzo, condannando la proprietaria di un cagnolino lasciato per giorni da solo nell’appartamento al pagamento di un’ammenda di 3mila euro oltre alle spese di giudizio.

A segnalare il tutto erano stati i vicini di casa che sentendo i continui pianti dell’animale avevano chiamato i carabinieri. Il cane era stato ritrovato in una stanza con il pavimento ricoperto di escrementi e senza più nulla da mangiare o da bere (Trib. Arezzo, sezione penale 19.6.2014). A nulla sono servite le doglianze della donna che sosteneva di aver assicurato al cane cibo e acqua a sufficienza.

Per il giudice toscano, la nozione di abbandono, ai fini dell’applicazione di cui all’art. 727 del codice penale, non è da intendersi solamente come “precisa volontà di abbandonare (o lasciare) definitivamente l’animale – ma anche nel – non prendersene più cura, ben consapevole della incapacità dell’animale di non poter più provvedere a sé stesso come quando era affidato alle cure del proprio padrone”.

Sul significato di abbandono, con riferimento all’art. 727 del codice penale, si è espressa più volte anche la Corte di Cassazione, secondo la quale tale locuzione non può essere circoscritta “al concetto di distacco totale e definitivo della persona da un’altra persona o da una cosa”, ben potendo, nel comune sentire “qualificarsi l’abbandono come senso di trascuratezza o disinteresse verso qualcuno o qualcosa o anche mancanza di attenzione” (cfr. Cass. n. 18892/2011). La condotta di abbandono quindi va interpretata in senso ampio e non rigidamente letterale. Del resto, il concetto penalistico di abbandono è ripreso, hanno specificato i giudici di legittimità, anche dall’art. 591 c.p., in tema di abbandono di persone incapaci. Sia pure con connotati diversi, anche in tali casi, “per abbandono va inteso non solo il mero distacco ma anche l’omesso adempimento da parte dell’agente, dei propri doveri di custodia e cura e la consapevolezza di lasciare il soggetto passivo in una situazione di incapacità di provvedere a sé stesso”.

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Assicurazioni: 2milioni di euro di multa per le notifiche di atti e decreti ingiuntivi illegittimi

Assicurazioni: 2milioni di euro di multa per le notifiche di atti e decreti ingiuntivi illegittimi
Per l’Antitrust, tali azioni integrano pratiche commerciali aggressive e scorrette

InsuranceDall’Antitrust arrivano brutte notizie per le grandi compagnie che intendono recuperare i crediti vantati nei confronti dei consumatori: notificare decreti ingiuntivi e atti di citazione dinanzi a dei giudici che sono incompetenti per territorio va considerata una pratica commerciale aggressiva e quindi scorretta.

Con tre provvedimenti (il numero 10222/2016, il numero 10223/2016 e il numero 10273/2016 del 18 maggio) l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha infatti condannato tre grandi compagnie assicurative al pagamento di una sanzione di circa due milioni di euro per aver inviato decreti ingiuntivi e atti di citazione non rispettando la regola del cd. foro del consumatore.

La violazione sistematica del codice del consumo per favorire la propria attività di recupero crediti, infatti, non è più un comportamento ammissibile e va repressa.

Sostanzialmente, la colpa delle Compagnie è stata quella di aver tentato di soddisfare le proprie pretese creditorie inoltrando atti di citazione in giudizio o ricorsi per decreti ingiuntivi senza rispettare la competenza del foro di residenza del consumatore e spesso senza poi iscrivere la causa a ruolo quando richiesto.

L’attività di recupero del credito, invece soggiace pienamente alle norme del codice del consumo, dovendo essere considerata come una pratica commerciale post-vendita, come già l’Antitrust aveva avuto modo di chiarire in altre occasioni.

E la condotta contestata dall’Autorità, come accennato, è stata tutt’altro che sporadica. Limitando l’analisi ai soli decreti ingiuntivi, basti pensare che dei 937 notificati da una delle Compagnie sanzionate tra il 14 novembre 2011 e il 29 ottobre 2015, ben 868 non provenivano dal foro di residenza del consumatore.

La tutela del consumatore, insomma, è stata ripetutamente calpestata senza che l’eventuale declaratoria di incompetenza del giudice adito possa considerarsi idonea a ripristinarla e senza che sia possibile individuare la ragione di tale comportamento nell’esercizio di un diritto legittimo di recupero in sede giudiziale dei crediti delle Compagnie.

A prescindere, insomma, dall’effettiva esigibilità del credito, le condotte sanzionate non possono che essere considerate delle pratiche commerciali aggressive, in quanto perfettamente idonee a ingenerare nel consumatore medio il convincimento che sia meglio pagare l’importo che affrontare un contenzioso in un luogo lontano da quello in cui si risiede, con tutte le difficoltà del caso.

L’unica attenuante riconosciuta dall’Antitrust è stata quella derivante dall’aver le Compagnie, in alcuni casi, restituito al consumatore le somme loro liquidate a titolo di spese e compensi, in maniera tale da limitare gli effetti pregiudizievoli della vicenda.

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Bar e ristoranti: il gazebo senza permesso è reato

Bar e ristoranti: il gazebo senza permesso è reato
L’opera, per consistenza e caratteristiche costruttive, determina un incremento volumetrico non precario

gazeboÈ necessario il permesso a costruire per il “dehor” realizzato dal proprietario con pedana e gazebo, destinato ad accogliere i tavoli di un ristorante da lui gestito: opere aventi simile consistenza e caratteristiche costruttive occupano il suolo pubblico determinando indubbiamente un intervento volumetrico che non può definirsi precario.

Lo ha disposto la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza 21988/2016 (qui sotto allegata) sul ricorso del gestore di un ristorante contro l’ordinanza del Tribunale di Roma che aveva rigettato la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso nei confronti della struttura realizzata dal ricorrente e consistente in una pedana delimitata da parapetti in ferro con pannellatura modulare e copertura sorretta da travatura orizzontale e verticale.

Per il Tribunale l’opera, destinata ad accogliere i clienti del ristorante dell’indagato, invade il suolo pubblico occupandolo senza titolo posta la necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire.
Premesse condivide dagli Ermellini per ciò che riguarda la contravvenzione edilizia: va, infatti, rilevato che le opere aventi consistenza e caratteristiche costruttive quali quelle realizzate dal ricorrente devono senz’altro ritenersi soggette al permesso di costruire.

Si tratta, invero, di una struttura destinata, per dimensioni e caratteristiche costruttive, a non contingenti esigenze di esercizio dell’attività di ristorazione che determina, indubbiamente, un incremento volumetrico.
La struttura, che, come chiarito nella descrizione riportata dal Tribunale, è costituita, oltre che da una pedana delimitata da parapetti in ferro, anche da una chiusura laterale mediante pannellatura modulare e da una copertura sorretta da travatura orizzontale e verticale, ha, evidentemente, caratteristiche di gran lunga differenti rispetto a quelle richieste per delimitare lo spazio esterno di un locale ed assicurare la sicurezza e l’incolumità delle persone, costituendo, in buona sostanza, non un dehor, come lo definisce il ricorrente e, cioè, uno spazio esterno ad un pubblico esercizio attrezzato con arredi, bensì una nuova volumetria suscettibile di autonoma utilizzazione.

Un intervento di tale consistenza non potrebbe neppure definirsi precario, atteso che, secondo quanto ripetutamente stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, la precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dall’utilizzatore, sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, l’opera deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e deve, inoltre, essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso.
Il ricorso va pertanto rigettato.

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Oltraggio a pubblico ufficiale. Il reato c’è se avviene in presenza di più persone

Oltraggio a pubblico ufficiale. Il reato c’è se avviene in presenza di più persone
Secondo la Cassazione data presenza di più persone, a nulla rileva che le stesse abbiano effettivamente sentito le frasi pronunciate dall’imputato

carabinieriCome noto, il nostro ordinamento penale sanziona l’oltraggio a pubblico ufficiale, ovverosia il comportamento posto in essere da chi offende l’onore e il prestigio di tale soggetto mentre compie un atto di ufficio e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.

Affinché il reato di configuri, inoltre, è necessario che il comportamento censurato sia posto in essere in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone.

A prevederlo, in particolare, è l’articolo 341-bis del codice penale.

Se tuttavia quanto disposto dalla norma non dovesse essere chiaro a tutti, basta guardare alla giurisprudenza per comprendere gli esatti confini della disciplina sanzionatoria.

Ed è proprio degli ultimi giorni una pronuncia con la quale i giudici di legittimità hanno chiarito che, come da orientamento ormai consolidato, ai fini della configurabilità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale è sufficiente che gli i presenti abbiano la possibilità di udire le parole oltraggiose, non essendo invece necessario che gli stessi le sentano effettivamente.

Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza numero 15440/2016, depositata il 13 aprile 2016 (qui sotto allegata), con la quale la sesta sezione penale della Corte di cassazione ha sancito che, considerando che il bene giuridico fondamentale che l’articolo 341-bis del codice penale tutela è il buon andamento della pubblica amministrazione, già solo il fatto che le parole possano essere udite dai presenti rappresenta un aggravio psicologico idoneo a compromettere la prestazione del pubblico ufficiale e, di conseguenza, integra l’ipotesi delittuosa.

Esse, infatti, disturbano comunque la vittima mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse per lui e per l’amministrazione della quale fa parte e ulteriori rispetto a quelle ordinarie.

Così nel caso di specie la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da un uomo condannato per il reato di cui all’articolo 341-bis c.p. per aver rivolto invettive contro un appuntato della guardia di finanza: data la presenza di più persone al momento del fatto, a nulla rileva che le stesse abbiano effettivamente udito le frasi pronunciate dall’imputato.

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È reato usare il collare elettrico per addestrare il cane

È reato usare il collare elettrico per addestrare il cane
Per la Cassazione è integrata la fattispecie di cui all’art. 727, secondo comma, c.p. per le sofferenze inflitte

collare elettronicoIl padrone che usa il collare elettrico per addestrare il proprio cane commette reato. Anche se non si versa, infatti, in tali casi, nell’ipotesi di maltrattamento (ex art. 544-ter c.p.), giacché non si può parlare di “sevizie” o “lesioni” all’animale viene comunque inflitta una sofferenza per via delle scosse. È integrata, quindi, la contravvenzione per abbandono (art. 727, secondo comma, c.p.). Ad affermarlo è la terza sezione penale della Cassazione (sentenza n. 21932/2016), pronunciandosi sulla vicenda di un uomo, condannato in appello per il reato di maltrattamento di animali, per aver applicato un collare elettrico ai suoi due cani al fine di addestrarli all’attività venatoria.

Il cacciatore ricorreva innanzi a piazza Cavour lamentando erronea applicazione di legge in quanto il reato contestato prevede le lesioni o le sevizie all’animale oltre ad uno “stato di inutile sofferenza”.

Gli Ermellini accolgono le sue doglianze e derubricano il reato in contravvenzione, ammettendo che nel collare elettrico “il livello di stimolazione può essere regolato dal telecomando (tensione e durata)”, per cui è escluso, secondo le conclusioni del perito, “qualsiasi rischio per la salute del cane” avendo gli impulsi una durata molto limitata, essendo l’energia trasmessa trascurabile e attraversando “una zona limitata del corpo senza interessare gli organi vitali”.

Tuttavia, ciò non toglie che con tali strumenti vengono comunque inflitte “sofferenze gravi e incompatibili con la natura degli animali”.

Per cui, i giudici invitano espressamente ad utilizzare altri metodi di addestramento “più consoni alla natura etologica dell’animale” e confermano la contravvenzione, dalla quale in ogni caso l’uomo si salva per l’intervenuta prescrizione.

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Certificati: commette reato il medico che proroga la malattia al telefono

Certificati: commette reato il medico che proroga la malattia al telefono
Risponde di falso ideologico il sanitario che basa la sua diagnosi su quanto riferito dal lavoratore telefonicamente

Arzt verschreibt die KrankmeldungLa possibilità per i lavoratori di assentarsi dal lavoro nel caso in cui essi siano colti da malattia è un diritto che il nostro ordinamento tutela in maniera assoluta.

Tuttavia, come noto, tale diritto può essere esercitato solo se è sorretto da un certificato medico che attesti l’effettivo stato di salute del dipendente.

A tal proposito è interessante sottolineare che spesso accade che la durata della prognosi che il medico indica nel primo certificato non è sufficiente per una completa guarigione, tanto che si rende necessaria la proroga del certificato stesso.

Affinché tale proroga sia legittima, tuttavia, è necessario che il sanitario si rechi personalmente a visitare il lavoratore per accertarne l’effettivo stato di salute, senza che sia possibile provvedere al prolungamento dell’efficacia del certificato sulla base di una visita soltanto “telefonica” e fondata esclusivamente su quanto riferito dal paziente.

Nonostante talvolta la questione venga presa alla leggera, in realtà ad essa ci si deve approcciare con la massima serietà: il rischio di essere sanzionati penalmente, infatti, non è così remoto.

Anzi: la giurisprudenza si è in passato occupata di tale specifica questione con la sentenza numero 18687 del 15 maggio 2012, nella quale è stata confermata la condanna di un sanitario per il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati, di cui all’articolo 480 del codice penale.

Nel caso di specie non era bastato al medico sottolineare che la lavoratrice sua paziente era stata visitata appena quattro giorni prima della proroga: il fatto di aver compilato il certificato fondandosi solo sui sintomi riferiti dalla donna via telefono non ha salvato il sanitario dal dover rispondere di falso certificato.

Valigetta alla mano, quindi, ogni medico prima di firmare un certificato deve accertare che effettivamente quanto in esso riportato corrisponda a realtà.

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Permessi legge 104: l’abuso è reato

Permessi legge 104: l’abuso è reato
Può avere rilevanza penale il comportamento del lavoratore che sfrutta i permessi per scopi personali

assistenza-disabiliSe il lavoratore abusa dei giorni di permesso retribuito, previsti dalla legge 104/1992 per l’assistenza al familiare invalido, il suo comportamento può costargli il posto di lavoro, ma anche integrare un’ipotesi di reato.
Si tratta di un’affermazione da tempo sostenuta in giurisprudenza, che trova una puntuale affermazione nella recente sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 9749/2016.

Non merita accoglimento, per gli Ermellini, il ricorso del dipendente contro il suo licenziamento, intimatogli dall’azienda poichè nelle ore in cui aveva fruito di permessi ex lege n. 104 del 1992, concessi per l’assistenza alla suocera disabile, si era invece più volte recato ad effettuare lavori in alcuni terreni di proprietà, come rilevato dagli investigatori privati assoldati dal datore di lavoro.

I giudici di Piazza Cavour sottolineano che l’utilizzo improprio dei permessi giustifica il licenziamento, non solo stante il disvalore sociale alla stessa attribuibile, ma per l’idoneità a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, indipendentemente dall’entità del danno eventualmente arrecato a cagione della condotta addebitata.

Si tratta, precisano i giudici, di un danno che non ricade sul solo datore di lavoro che si vede privare illegittimamente della prestazione lavorativa, ma soprattutto di un comportamento che viola i doveri imposti dalla convivenza sociale e che costringe l’intera collettività a sopportarne l’indebito costo.

Se i permessi ex lege n. 104 del 1992 vengono utilizzati non per l’assistenza al familiare disabile, bensì per attendere ad altre attività, si verifica, in sostanza, un abuso del diritto suscettibile di rilevanza anche penale.
Ciò rende, pertanto, pienamente legittimo l’intervento di un’agenzia investigativa: queste, per operare lecitamente, non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, ma resta giustificato il loro intervento non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione

L’ipotesi che l’abuso dei permessi previsti dalla legge 104/92 integri una condotta penalmente rilevante era già stata sostenuta dal Tribunale di Pisa, che aveva parlato di vera e propria truffa laddove il lavoratore avesse utilizzato i permessi retribuiti previsti dall’art. 33 della legge menzionata per svolgere attività personali e non per la cura del disabile: nel caso di specie era stata disattesa la tesi difensiva che sosteneva la possibilità di utilizzare tali permessi anche per il recupero delle energie psicofisiche spese per la cura e l’assistenza del congiunto.

Anche il Tribunale di Genova aveva parlato di reato commesso ai danni dello stato e dell’azienda, tale da consentire di intraprendere un procedimento penale; a ciò, secondo il giudice ligure, si accompagnava anche l’indebita percezione del trattamento economico ai danni dell’INPS.

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Cassazione: il saluto romano allo stadio è reato

Cassazione: il saluto romano allo stadio è reato
Il gesto è inquadrabile come apologia del fascismo. I tifosi comunque salvi per prescrizione

stadioMentre si diffondono le note dell’inno di Mameli, sette tifosi vengono beccati dalle telecamere a fare il “saluto romano”. Inequivocabile il significato del comportamento che non viene affatto “perdonato” dai giudici: il gesto integra infatti “apologia del fascismo” in quanto rimanda a valori politici di discriminazione razziale ed intolleranza. L’off-limits viene confermato anche dalla Cassazione che ha sposato in pieno la tesi dei giudici di merito per la riprovevolezza del gesto, ancora più censurabile vista la “diffusione mediatica”.

Il saluto romano, si legge infatti nella sentenza della prima sezione (n. 20450/2016), era stato inscenato dal gruppo di ultras nel corso dell’incontro di calcio, valevole per la partecipazione ai mondiali di calcio, alla presenza di oltre 20mila spettatori.

A nulla vale la tesi difensiva dei tifosi secondo i quali, il saluto fascista gesto non “possedeva alcuna valenza discriminatoria e non era accompagnato da comportamenti violenti che potessero essere ricondotti al regime fascista”.

Per gli Ermellini, il saluto fascista o romano, che dir si voglia, rappresenta una manifestazione che rimanda all’ideologia fascista e a valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza. La fattispecie non richiede che non richiede che le manifestazioni “siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva secondo quanto previsto dal decreto-legge 122 del 1993”.

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Quando a parcheggiare male si rischia molto più di una multa

Quando a parcheggiare male si rischia molto più di una multa
Lasciare l’auto in sosta vietata o in doppia fila può comportare non solo il rischio di una sanzione ma responsabilità di carattere penale

doppiafilaA lasciare l’auto in sosta vietata o in doppia fila non si rischia solo una multa: in casi, estremi ma non troppo, il rischio è anche quello di incappare in un processo penale. Sono diversi i casi finiti sotto la lente dei giudici, finanche di quelli di legittimità, per responsabilità di carattere penale scaturenti dall’aver parcheggiato male la propria auto.

Vediamoli:

Concorso in omicidio per divieto di sosta
A Milano, due automobilisti sono stati rinviati a giudizio per concorso in omicidio perché la loro auto, lasciata in divieto di sosta durante la notte in prossimità di un incrocio, aveva ostacolato la visuale di un automobilista che aveva quindi provocato un incidente con esito per lui stesso mortale.

Non solo il processo: per i due arrivò anche la condanna. La motivazione addotta dal giudice fu che l’evento morte verificatosi e alla base della responsabilità degli automobilisti rappresentò la concretizzazione del rischio che l’articolo del codice della strada sul divieto di sosta mirava a prevenire.

Delle semplici violazioni amministrative, insomma, possono cagionare anche conseguenze ben più gravi, specie per quei reati per i quali è richiesto l’elemento soggettivo della colpa.

Certo è che la responsabilità è strettamente collegata alla prova non solo della causalità materiale ma anche della causalità della colpa, ovverosia che tra la condotta violatrice e l’evento vi sia un nesso concreto.

Tanto che in altri analoghi casi la responsabilità penale è stata esclusa.

Sequestro di persona per il parcheggio nel cortile del vicino

Il rischio, però, non è solo quello di essere condannati per omicidio: parcheggiare male, infatti, può causare anche altri reati.

La giurisprudenza, ad esempio, ha condannato per sequestro di persona un uomo che aveva parcheggiato, nel caso di specie per recuperare dei soldi, davanti al vialetto di accesso alla casa del debitore, di fatto imprigionando i figli di questo dentro casa.

Violenza privata per chi parcheggia in doppia fila

E che dire della vicenda in cui un automobilista aveva parcheggiato la propria auto in maniera tale da bloccare l’unico accesso a un fondo altrui? In quel caso l’uomo si era beccato una condanna per il reato di violenza privata!

La stessa sorte è toccata più volte anche a degli automobilisti che hanno lasciato il proprio mezzo, senza spiegazioni, all’interno del cortile condominiale impedendo l’uscita degli altri veicoli o che hanno “tagliato” la strada ad un altro veicolo.

Il messaggio è chiaro: quando si decide di “sfidare la sorte” e lasciare la propria auto in divieto, bisogna considerare il fatto che il rischio che si corre non è solo quello di dover pagare una multa o di dover recuperare il proprio mezzo se rimosso. Le conseguenze, infatti, potrebbero essere ben più gravi!

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Domiciliari: meglio la galera dei parenti

Domiciliari: meglio la galera dei parenti
Accusato di evasione viene accontentato dalla Cassazione che conferma la condanna

arresto3Non ne può più di stare a casa della figlia e soprattutto dei suoi familiari, così lascia la casa e si presenta in carcere chiedendo di tornare in galera. I giudici lo accontentano subito ma per un periodo più lungo, infliggendogli una condanna per evasione.

L’uomo infatti si trovava ai domiciliari e qualsiasi “volontario allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare senza autorizzazione” costituisce evasione, indipendentemente dalla durata, dalla distanza dello spostamento o dalle motivazioni del soggetto, ivi compreso l’intento di essere ricondotto o di recarsi personalmente in carcere.

Giunta la vicenda in Cassazione, dalla sesta sezione del Palazzaccio (sentenza n. 19005/2016 qui sotto allegata) non può che arrivare la conferma della condanna ex art. 385, commi 1 e 3, c.p.

A nulla rilevano infatti le doglianze dell’uomo che sosteneva di aver già manifestato la sua intenzione al magistrato di sorveglianza. Né può ravvisarsi la causa di giustificazione dello stato di necessità per il deterioramento dei rapporti con i familiari, dal momento che non vi è un pericolo di un danno grave alla persona.

Ciò che conta, chiosano gli Ermellini, è la sussistenza dell’elemento psicologico del reato per essersi sottratto, anche se per breve tempo, alla detenzione domiciliare, senza prima passare dalla stazione dei carabinieri preposti al suo controllo o comunque avvisarli.

L’uomo, quindi, torna in carcere per scontare la nuova pena. Almeno, quale magra consolazione, per un po’ non dovrà vedere i parenti.

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