Risarcimento danni da violazione del diritto all’istruzione del disabile

Risarcimento danni da violazione del diritto all’istruzione del disabile.

Criteri guida per chiedere e ottenere il ristoro per il disagio che i genitori subiscono a causa di omissioni della scuola nell’avviamento del sostegno per il minore con handicap.

Il diritto all’istruzione del disabile (in particolare del disabile grave) sancito dagli artt. 2, 3, 38 comma 3 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il legislatore e l’amministrazione che è chiamata ad attuare le leggi non possono mai esimersi dall’apprestare quel nucleo di garanzie dovute, fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza scolastica, nel caso di accertata situazione di gravità del disabile.

La condotta dell’Istituto scolastico consistente nel riconoscimento di un monte-ì ore settimanali di sostegno inferiore ad una data proporzione preventivamente stabilita, appare in netta violazione della Legge Quadro n. 104/92 per l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone disabili, oltre che del d. lgs. n. 297/94 recante disposizioni in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica e allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile.

I principi sopra richiamati impongono di dare una lettura sistematica a tutte le norme e disposizioni sulla tutela degli alunni disabili, nonchè a quello sull’organizzazione scolastica e sulle disponibilità degli insegnanti di sostegno, nel senso che le posizioni degli alunni disabili devono senza dubbio prevalere sulle esigenze di natura finanziaria dell’istituzione.

Come dimostrare il bisogno di assistenza continua dell’alunno? Attraverso:
1) la certificazione della Commissione medica presso la Asl, attestante la presenza di un handicap grave ai sensi della Legge n. 104/92, oltre a
2) certificazione medica che evidenza la gravità della patologia sofferta dal minore e le conseguenti necessità di sostegno, nonché
3) Piano Educativo Individualizzato, che conferma il bisogno di assistenza continua del minore durante le attività scolastiche.
Sulla base di questi elementi, va riconosciuto in favore del minore il diritto all’insegnante di sostegno per l’intero arco della giornata scolastica, con tutti i conseguenti obblighi dell’amministrazione.

Nel caso in cui l’Istituto scolastico assegni al minore un numero limitato di ore di sostegno, procedere in questo modo:
a) contestare il provvedimento amministrativo citato;
b) presentare un ricorso al Tar, nel quale si impugna il predetto provvedimento;
c) chiedere il risarcimento dei danni.

A questo punto il giudice amministrativo farà una serie di ragionamenti per arrivare a liquidare il danno, sequenze che possono essere schematizzate con questi rapidi passaggi:

d) la premessa resta sempre quella che il diritto all’istruzione del minore portatore di handicap ha rango di diritto fondamentale;
e) la mancata attivazione dell’intervento dell’insegnante di sostegno nel rapporto predeterminato 1:1, sin dall’inizio dell’anno scolastico, amplifica le difficoltà di inserimento e di partecipazione alla vita scolastica e di relazione del minore;
f) il danno va liquidato in via equitativa, con il riconoscimento di un importo per ogni mese di mancata assistenza da parte dell’amministrazione, nel corso dell’anno scolastico e fino all’avvenuta integrazione delle ore di sostegno nel rapporto 1:1 voluto dalla norma.

La preparazione di questi ricorsi presuppone che la materia dei diritti all’istruzione del minore portatore di handicap sia familiare per il difensore: ciò consente all’avvocato (e per conseguenza ai genitori del minore) di cogliere e sottolineare quelle sfumature tecnico-giuridiche che, opportunamente mostrate al magistrato, possono condurre all’accoglimento della domanda di risarcimento.

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Da risarcire l’avvocato per l’erroneo inserimento negli elenchi telefonici

Da risarcire l’avvocato per l’erroneo inserimento negli elenchi telefonici.

Il mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico pregiudica la possibilità di essere contattati da nuova clientela, danno da perdita di chance suscettibile di valutazione equitativa.

Il danno da perdita di chance non presuppone necessariamente la perdita di un vantaggio economico, bensì la mancanza definitiva della possibilità di poterlo conseguire, da valutarsi al momento del comportamento illecito, sia pure in termini potenziali.

In altri termini, il danno da perdita di chance è rappresentato dall’incertezza in relazione a cosa sarebbe accaduto se il comportamento illecito non si fosse concretizzato, pertanto, esso non attiene alla circostanza se il vantaggio economico perseguito sarebbe stato raggiunto, o meno, ma alla definitiva opportunità di conseguirlo.

Tale danno da perdita di chance è suscettibile di valutazione equitativa, pur in assenza di documentazione probatoria fiscale dalla quale desumere la contrazione reddituale che, se presente, sicuramente può incedere sulla materiale quantificazione dello stesso ma, nondimeno, non può escluderne la sussistenza.

Questi i principi di diritto espressi nell’ordinanza n. 14916, pubblicata in data 8 giugno 2018 dalla III Sezione civile della Corte di Cassazione, relatore dott. E. Iannello.
La vicenda giudiziaria di merito

Un avvocato evocava in giudizio la compagnia telefonica e la società editrice gli elenchi telefonici, al fine di sentirle condannare, in solido tra loro, al risarcimento dei danni, patrimoniali e di immagine, conseguenti al mancato ovvero inesatto inserimento dei propri dati negli elenchi telefonici cartacei e on-line.

Instauratosi correttamente il contraddittorio, nella resistenza delle società convenute, il Tribunale di Milano rigettava la domanda non rinvenendo alcuna responsabilità in capo alle stesse e, comunque, il difetto di prova in relazione al preteso danno.

La sentenza veniva confermata in sede di gravame dalla Corte d’Appello di Milano, la quale ribadiva la mancanza di prova in merito alla pretesa responsabilità delle convenute e la mancanza di prova del danno da perdita di chance, anche in virtù del fatto che, chiosava la Corte meneghina, <<è impensabile che la scelta del legale avvenga tramite la mera consultazione dei suddetti elenchi, trattandosi di incarichi nei quali la scelta della persona del professionista poggia fondamentalmente sulla fiducia nelle sue qualità professionali, qualità che non si ricavano da un mero elenco alfabetico>>. Peraltro, conclude la stessa, <<una volta che si sia in possesso del nominativo del legale, è possibile conoscere i dati che permettono di contattarlo attraverso una richiesta all’ordine degli avvocati, ovvero una consultazione dell’elenco tenuto dall’ordine stesso>>.

Propone ricorso per cassazione l’avvocato, con impugnazione affidata a quattro motivi, tra i quali, tralasciando quelli procedurali, la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale ex art. 1362 Cc, nonché l’erroneità della sentenza gravata in relazione alla consistenza del danno da perdita di chance e i relativi oneri probatori.
L’ordinanza della Corte di Cassazione

Da premettere che la Suprema Corte accoglie tutti e quattro i motivi di ricorso e, con particolare riguardo alla definizione ed alle caratteristiche del danno da perdita di chance, oltre che sui profili probatori dello stesso, evidenzia quanto appresso.

<<Secondo costante insegnamento di questa Corte, il danno patrimoniale da perdita di chance consiste non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita definitiva della possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale (Cass. 17/04/2008, n. 10111).>>.

A specificazione del principio osserva come il <<presupposto ed essenza stessa di tal genere di danno è dunque l’incertezza, ossia l’impossibilità di affermare con certezza che, se lo stesso non si fosse prodotto, il vantaggio economico avuto di mira si sarebbe oppure no conseguito, essendo il danno per l’appunto rappresentato dalla definitiva perdita della possibilità di conseguirlo (la cui affermazione dovrà comunque rispondere ai parametri della apprezzabilità, serietà, consistenza).>>.

Ecco che allora, sostiene il Supremo collegio, errata in diritto si appalesa l’affermazione della Corte d’Appello relativa alla mancanza di elementi istruttori concreti in relazione alla circostanza dalla quale desumere se, in mancanza del comportamento illecito dei convenuti – consistito nella omessa o errata indicazione dei dati dell’avvocato negli elenchi telefonici -, i potenziali clienti si sarebbero rivolti proprio a quel professionista, in considerazione del fatto che proprio tale incertezza, in un senso o nell’altro, definisce la il danno da perdita di chance.

A tal proposito, ricorda il Giudice di legittimità, in <<fattispecie analoghe, questa Corte ha già più volte affermato che «quello che rileva in caso di mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico non è tanto la possibilità di continuare ad essere contattati da clienti già acquisiti, quanto il fatto di non poter essere contattati da nuova clientela, rispetto alla quale nessuna prova della “perdita” può essere pretesa, se non in termini di “possibilità” e perdita di chance, suscettibile anch’essa di valutazione equitativa» (Cass. 04/08/2017, n. 19497), non mancandosi di osservare che tale diritto ha, «in tutta evidenza, maggiore pregnanza allorquando l’utenza telefonica afferisca ad un’attività professionale o commerciale» (Cass. 03/08/2017, n. 19342).>>.

Tale danno, conclude la Suprema Corte richiamando il medesimo precedente (Cass. 19497/2017), non può essere smentito dalla mera mancanza di documenti fiscali idonei a dimostrare il decremento reddituale del ricorrente, la cui assenza può incidere sulla quantificazione dello stesso, ma non certo negarlo e che possa, comunque, essere liquidato in via equitativa.

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Divorzio: il coniuge in disaccordo può opporsi?

Divorzio: il coniuge in disaccordo può opporsi?

Se uno dei coniugi subisce la decisione dell’altro può opporsi al divorzio? Si, se durante o dopo la separazione si sono riconciliati in modo serio e durevole.

Se il matrimonio finisce per volere di uno solo dei coniugi, chi subisce questa decisione può opporsi? Si, a condizione che durante o dopo la separazione vi sia stata una riconciliazione seria e duratura in grado d’interrompere i termini richiesti per procedere con il divorzio. Se poi, nonostante la buona volontà, la riconciliazione fallisce, si deve ricominciare tutto daccapo.

Dopo la separazione, non è detto che i coniugi decidano di comune accordo di divorziare. Questo perché, mentre la separazione si limita a sospendere gli effetti del matrimonio, il divorzio lo scioglie definitamente. E’ quindi possibile che, proprio alla fine di un periodo più o meno lungo di separazione, uno dei due coniugi abbia dei ripensamenti e desideri rimettere in piedi il matrimonio.

La legge stabilisce che, per procedere con il divorzio, dopo:

– la separazione consensuale, devono decorrere sei mesi dalla convalida dell’accordo dei coniugi;
– la separazione giudiziale, è invece necessario il decorso di un anno dall’udienza in cui il Presidente ha emesso i provvedimenti provvisori in attesa della sentenza definitiva.

Per procedere al divorzio è necessario inoltre che durante i termini suddetti i coniugi non si siano riconciliati, poiché questo evento ne interrompe il decorso, consentendo al coniuge in disaccordo di opporsi alla fine del matrimonio. L’opposizione, se non ha il potere d’impedire all’altro d’intraprendere la causa di divorzio, può essere fatta valere durante il procedimento, fornendo la prova di tutti gli elementi oggettivi, diretti ed esteriori dai quali si desume la “comune” intenzione di ripristinare la comunione di vita.

La riconciliazione che si verifica durante la causa di separazione è espressa, se risulta dal verbale di conciliazione, tacita se si desume dai comportamenti delle parti, che ad esempio abbandonano il procedimento.
I coniugi possono decidere di riconciliarsi anche dopo l’omologa dell’accordo o successivamente alla sentenza di separazione. Anche in questo caso la riconciliazione è tacita se i coniugi tengono un comportamento assolutamente incompatibile con lo status di separati (ripristino della convivenza e dei rapporti affettivi), espressa se dichiarano in un atto scritto di voler tornare a vivere insieme, nel rispetto dei doveri che questa scelta comporta.

Non è sufficiente infatti riprendere la convivenza temporaneamente o avere saltuari rapporti sessuali, affinché la riconciliazione sia rilevante giuridicamente, ma è necessario ripristinare un’unione seria e duratura.

Può capitare che nonostante gli sforzi dei coniugi la relazione, dopo un serio e responsabile periodo di riconciliazione naufraghi di nuovo. In questo caso non è possibile recuperare nulla di quanto fatto in precedenza. I coniugi devono infatti ricominciare tutto daccapo, avviando eventualmente una nuova procedura separazione, in cui il giudice non è vincolato a confermare le condizioni personali ed economiche di quella precedente, sia essa giudiziale o consensuale.

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Non basta riscuotere l’affitto per essere considerati impresa

Non basta riscuotere l’affitto per essere considerati impresa.

Interessante sentenza del Tribunale di Verona sulla natura commerciale dell’attività di impresa.

Il Tribunale di Verona con la sentenza n. 327/2018 ha fatto proprio l’orientamento della Suprema Corte secondo cui l’attività di mera riscossione dei canoni di un immobile affittato non costituisce di norma attività d’impresa, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società commerciale, salvo che si dia prova che costituisca attività commerciale di intermediazione immobiliare (cfr., ex multis, ord. Cass. n. 3145/2013; Cass. Sez. Lav., n. 23360/2016; Cass. Sez. Lav., n. 17370/2016; Cass. Sez. Lav., n. 17643/2016).

La Cassazione ha poi specificato che, anche prescindendo dall’esistenza del requisito della natura commerciale dell’attività imprenditoriale, la qualità di socio accomandatario o comunque illimitatamente responsabile non è di per sé presupposto per l’iscrizione nella gestione commercianti, in quanto deve essere sempre dimostrata la partecipazione del socio all’attività imprenditoriale con carattere di abitualità e prevalenza.

Il ricorrente aveva proposto opposizione avverso l’avviso di addebito con il quale l’Inps gli aveva richiesto il pagamento di contributi e somme aggiuntive dovuti per l’assicurazione obbligatoria nella gestione speciale commerciante per un certo periodo di tempo.

Ad avviso dell’INPS il ricorrente era tenuto a versare detti contributi in quanto socio di una s.r.l. svolgente attività imprenditoriale di natura commerciale, alla quale partecipava con continuità e prevalenza; secondo l’opponente, invece, la società in questione si limitava solo a gestire un immobile di proprietà concesso in locazione a terzi e a percepirne i relativi canoni, inoltre egli non svolgeva attività nell’impresa con carattere di abitualità e di prevalenza e pertanto non sussistevano i requisiti in presenza dei quali sorge ex lege l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali e al pagamento della relativa contribuzione.

Il Tribunale di Verona ha accolto il ricorso e dichiarato che l’opponente non è tenuto a pagare le somme richieste dall’Inps con l’avviso di addebito opposto, posto che, affinché sorga l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, è necessaria non solo la qualità di socio accomandatario ma anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, la cui prova, gravante sull’istituto assicuratore, nel caso di specie non è stata fornita dall’INPS.

Invero l’Inps non ha dimostrato la natura commerciale dell’attività svolta dalla società, la quale si limitava alla gestione di un immobile di proprietà, concedendolo in locazione a terzi e riscuotendone i canoni, in maniera non dissimile da quanto verrebbe fatto nel caso in cui la proprietà fosse in capo ad una o più persone fisiche, e pertanto non qualificabile di per sé come attività commerciale, così come non ha dimostrato la natura abituale e prevalente dell’attività prestata dal socio nella società.

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Rate condominiali pagate in ritardo: la mora è legittima?

Rate condominiali pagate in ritardo: la mora è legittima?

Quando è possibile applicare interessi moratori o penali nei confronti dei condomini insolventi.

Tra gli obblighi principali gravanti su ciascun condomino rileva quello relativo al pagamento delle quote condominiali alle scadenze prefissate, in virtù della ripartizione stabilita dalle tabelle millesimali e nel rispetto delle modalità chiarite dal regolamento condominiale.

Ai sensi dell’art. 1130 c.c. spetta all’amministratore la riscossione dei contributi, oltre che l’erogazione delle spese, occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni. Eventuali contestazioni all’amministratore e al suo operato, pertanto, potranno essergli mosse solo tenendo presente quanto stabilito dal regolamento.

Tanto vale anche laddove si verifichi una mora nei pagamenti, dovendo guardare a quanto previsto dal regolamento come conseguenza del ritardo nei versamenti.

Non è infrequente, infatti, che i condomini non siano in regola o trascurino la gestione degli esborsi dovuti, ricevendo dall’amministratore continui solleciti di pagamento. Tuttavia ci si è chiesti se sia legittimo applicare nei confronti degli insolventi interessi di mora o addirittura delle penali o sanzioni.

Nessun dubbio parrebbe esserci quanto agli interessi legali per il ritardo nel versamento degli oneri condominiali, i quali sorgono di diritto a partire dal momento della scadenza del credito. Il saggio degli interessi legali viene, ex art. 1284 c.c., determinato annualmente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (0,1% fino al 31.12.2017 e 0,3% dal 1° gennaio 2018).

Quanto agli interessi moratori, invece, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 10196/2013) ha ritenuto doversi considerare nulla (e non semplicemente annullabile) la delibera assembleare, adottata a maggioranza, che stabilisca interessi moratori per il ritardo dei pagamenti delle quote condominiali, in quanto tale previsione non rientra nei poteri dell’assemblea e, pertanto, può essere inserita soltanto in un regolamento contrattuale, approvato all’unanimità

Di conseguenza, secondo i giudici, l’invalidità si estende anche alle successive delibere nella parte in cui, nel ripartire gli oneri di gestione, applichino il relativo tasso di mora. Dunque, anche tali delibere saranno affette da nullità che potrà essere fatta valere dal condomino interessato senza essere tenuto all’osservanza del termine di decadenza di trenta giorni ai sensi dell’art. 1137 c.c.

In sostanza, eventuali indennità di mora aventi natura sanzionatoria/risarcitoria, eccedenti gli interessi legali (c.d. supermulte) e da calcolare percentualmente alla rata scaduta, potranno essere applicate solo laddove lo preveda il regolamento condominiale e qualora la relativa clausola sia stata approvata con il consenso unanime dei proprietari.

Principio analogo si ritiene valga anche per eventuali penali in caso di ritardo nel pagamento degli oneri condominiali.

La stessa Cassazione (cfr. sent. n. 10929/2011), infatti, ha stabilito che, così come gli interessi di mora, eventuali “multe” o penali possano essere applicate nei confronti del condomino moroso unicamente ove tale possibilità sia prevista dal regolamento condominiale e la relativa clausola sia stata approvata all’unanimità.

Infatti, si ritiene non rientri nei poteri dell’assemblea prevedere penali a carico dei condomini morosi, che, in teoria, possono essere inserite soltanto in regolamenti c.d. contrattuali, cioè approvati all’unanimità.

Dunque, un’eventuale delibera assembleare che abbia approvato l’applicazione di penali e sia stata adottata solo a maggioranza, sarà nulla e non semplicemente annullabile, dunque impugnabile dal condomino in qualsiasi momento, ad esempio opponendosi all’eventuale decreto ingiuntivo che, oltre alle quote condominiali, gli intimi di pagare anche altri importi a titolo di penale o interessi di mora.

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Omicidio stradale e guida in stato di ebbrezza: unico reato

Omicidio stradale e guida in stato di ebbrezza: unico reato.

La guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti sono aggravanti dell’omicidio stradale nel rispetto del ne bis in idem sostanziale.

Con la sentenza n. 26857/2018, depositata il 12 giugno, la Cassazione sancisce che, chi guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti deve essere imputato per il reato di omicidio stradale nella forma aggravata, poiché l’imputazione separata e ulteriore per guida in stato di ebbrezza violerebbe il principio del ne bis in idem sostanziale. Questo il cambiamento apportato dalla legge n. 41/2016, che contempla la guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe come aggravanti del reato base di omicidio stradale.

In primo grado l’imputato viene condannato per concorso formale (ai sensi dell’art. 589-bis, comma 8, cod. pen.) dei reati di omicidio colposo stradale, commesso in stato di ebbrezza alcoolica ai sensi dell’art. 186, comma 2, lett. b), del d. Igs. 30 aprile 1992, n. 285 (capo A) e di lesioni colpose stradali gravi, commesso in stato di ebbrezza alcoolica ai sensi dell’art. 186, comma 2, lett. b), del d. Igs. n. 285 del 1992 (capo B). In appello la pena è rideterminata e ridotta a quella applicata per i reati di cui ai capi A) e B) mentre il resto viene confermato. Ricorre in Cassazione l’imputato, ritenendo violata, tra gli altri motivi di ricorso “la disciplina codicistica del reato complesso (art. 84 cod. pen.), tale essendo il rapporto tra omicidio stradale aggravato ex art. 589-bis, comma 4, cod. pen., e guida in stato di ebbrezza alcoolica ai sensi dell’art. 186, comma 2, lett. b), e comma 2-bis, del d. Igs. n. 285 del 1992.”

La Corte, ritenendo parzialmente fondato il ricorso dell’imputato, precisa che la precedente normativa sull’omicidio colposo (art. 589 c.p) e lesioni colpose (art. 590 c.p) prevedeva specifiche aggravanti se i fatti venivano commessi violando le norme sulla circolazione stradale da parte soggetti a cui veniva rilevato un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro. La legge n. 41/2016, che ha introdotto il reato di omicidio stradale, applicabile solo ai conducenti di veicoli a motore, prevede invece che lo stato di ebbrezza costituisca un’aggravante dell’omicidio stradale e non una fattispecie autonoma di reato. La legge 41/2016 ha quindi introdotto un reato complesso, che assorbe la guida in stato di ebbrezza (art. 186 del Codice della strada) e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (art. 187), che non possono essere contestati separatamente, perché aggravanti dell’omicidio stradale o delle lesioni stradali.

La Cassazione, accogliendo il ricorso in punto di reato complesso, enuncia il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati».

Secondo la Cassazione, in virtù del principio del ne bis in idem sostanziale, di cui sono espressione gli artt. 15 e 84 c.p che definiscono il reato complesso e i principi di specialità e assorbimento, non si può addebitare all’imputato più volte il medesimo fatto storico.

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Risarcimento danni da ambiente di lavoro ostile

Risarcimento danni da ambiente di lavoro ostile.

Mini guida in materia di straining basata sui più recenti orientamenti della Corte di Cassazione Sez. Lavoro.

Nel caso in cui il datore di lavoro costringa un dipendente a lavorare in un ambiente ostile, mostrando incuria e disinteresse per il benessere lavorativo di questi, ebbene il primo può essere chiamato a rispondere per violazione dell’art. 2087 c.c., dal momento che in forza dell’espressa disposizione di legge l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Come riconoscere le situazioni lavorative stressogene
Per arrivare a riconoscere chiaramente la natura stressogena (straining) di una determinata circostanza lavorativa, occorre indagare sugli effetti prodotti da questa situazione lesiva.
Lo stress (risarcibile) dunque affiora nel momento in cui provoca nel lavoratore una modificazione in negativo, costante e permanente, della sua situazione lavorativa, modificazione incisiva al punto da pregiudicare la sua salute.

Come abbiamo infatti sopra accennato, il datore di lavoro è obbligato ad evitare situazioni potenzialmente lesive per il proprio dipendente.
In buona sostanza: l’imprenditore / datore deve evitare tutte quelle situazioni che possano far scattare condizioni peculiari che per gravità, livello di frustrazione personale o professionale o altre circostanze del caso concreto, riconducano a questa particolare forma di danno.
E’ bene precisare che, stando agli orientamenti giurisprudenziali più accreditati (cfr. la recente sentenza della Cassazione lavoro n. 12437/2018), in giudizio tale danno può al limite anche prescindere dalla prova rigorosa di un preciso intento persecutorio.

Come capire quando il datore ha danneggiato il dipendente
Abbiamo parlato di situazioni lavorative più che borderline: diciamo smarcatamente stressogene e, come tali, lesive del diritto alla salute del lavoratore, costituzionalmente protetto.
Tanto per fare un esempio (ma la casistica che emerge dalle sentenze è vasta): pensiamo all’improvvisa estromissione del dipendente bancario da un ruolo direttivo, magari accompagnato da un atteggiamento ostile e di scherno posto in essere anche con il supporto subdolo di missive offensive distribuite in azienda, il tutto senza l’intervento del datore per proteggere in tutto o in parte il dipendente.

Come dimostrare i danni
La prova in causa del danno non patrimoniale, inteso questo come lesione del diritto al normale svolgimento della vita lavorativa ed alla libera esplicazione della propria personalità sul luogo di lavoro (anche nel significato areddituale della professionalità), può essere fornita anche con presunzioni.

La prova del danno alla professionalità da perdita di chances, tenuto conto degli effetti prodotti dalla condotta datoriale (pensiamo all’estromissione del dipendente da un settore strategico dell’azienda ove egli stava progressivamente incrementando le proprie conoscenze tecniche e gestionali), può portare il giudice ad accordare un risarcimento con liquidazione equitativa, ad esempio quantificando una percentuale del trattamento retributivo spettante al dipendente.

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Scuola: anche l’insegnamento in pre-ruolo presso gli istituti paritari conta

Scuola: anche l’insegnamento in pre-ruolo presso gli istituti paritari conta.

Il Tribunale di Enna ha riconosciuto il diritto alla valutazione del punteggio maturato per il servizio in pre-ruolo a fini giuridici ed economici.

Le aule di giustizia continuano a dare delle ottime notizie per i docenti: con le ordinanze numero 2944/2018 e numero 2945/2018, il Tribunale di Enna ha riconosciuto il diritto degli insegnanti ad ottenere la valutazione del servizio di insegnamento prestato in pre – ruolo in scuola paritaria, ai fini della mobilità, della ricostruzione di carriera e della posizione stipendiale dagli stessi maturata.

Il giudice Dott. Stancanelli Eugenio Alberto ha infatti accolto i ricorsi proposti a tal fine in via d’urgenza da due docenti, assistite dagli Avvocati Sara Indovino ed Elenio Mancuso del Foro di Enna, affermando che “non possono residuare dubbi circa l’illegittimità (…) della contestata disposizione di C.C.N.I. che esclude qualsiasi attribuzione di punteggio, in sede di mobilità, per il servizio di insegnamento svolto negli istituti paritari”.

Così argomentando, il Tribunale ha quindi riconosciuto alle due insegnanti il diritto ad ottenere da parte del M.I.U.R., dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Caltanissetta ed Enna, del Libero Consorzio Comunale di Enna – già Provincia Regionale di Enna e dell’Istituto di Istruzione Superiore “Abramo Lincoln” di Enna, la valutazione del punteggio maturato per il servizio di insegnamento prestato in pre – ruolo presso un istituto di istruzione paritario, in ossequio alla Legge n. 62 del 10.03.2000, al D.L. n. 255 del 3.07.2001, convertito in Legge n. 333 del 20.08.2001 e agli artt. 3 e 97 della Costituzione. Per i giudici, del resto, la mancata attribuzione del punteggio maturato per il predetto servizio in pre – ruolo avrebbe arrecato un pregiudizio irreparabile alla sfera patrimoniale, personale e familiare delle docenti.

Le due pronunce del Tribunale di Enna assumono una particolare importanza nel mondo della scuola, perché, verosimilmente, rappresenteranno la base per delle nuove e importanti interpretazioni su delle fattispecie assolutamente atipiche, oggetto di un ampio dibattito anche politico. Con esse, in sostanza, si è garantita la parità di trattamento tra docenti di provenienza statale e non statale, quindi tra servizi che, nel sistema di istruzione nazionale voluto dalla Legge n. 62/2000, hanno medesime dignità e caratteristiche.

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Responsabilità medica: divieto di espatrio per chi pratica l’eutanasia

Responsabilità medica: divieto di espatrio per chi pratica l’eutanasia.

La Cassazione conferma la misura cautelare nei confronti di un medico che aveva provocato consapevolmente la morte del fratello, non consenziente, e verosimilmente di altri pazienti.

Con la sentenza numero 26899/2018 qui sotto allegata, la Corte di cassazione si è pronunciata sulla vicenda di un medico anestesista che, utilizzando la propria competenza professionale, aveva praticato l’eutanasia nei confronti del fratello, non informato né consenziente, così provocandone la morte con un non irrilevante anticipo rispetto a quello che la sua malattia faceva ipotizzare.

Il medico, una donna alla quale era stata inflitta la misura cautelare del divieto di espatrio, si era rivolta ai giudici supremi per veder revocato tale provvedimento, ma con esito negativo.

La piena consapevolezza di provocare la morte del fratello, la sussistenza di sospetti casi di precedenti analoghi interventi, la facilità di accesso illecito ai farmaci necessari e il radicamento all’estero della ricorrente sono stati considerati elementi più che sufficienti a confermare la misura adottata dal G.I.P. e già ratificata dal Tribunale del riesame.
Differenza tra eutanasia e sedazione profonda

Nella pronuncia in commento, la Cassazione ha anche ricordato quali sono le differenze tra eutanasia e sedazione profonda.

L’eutanasia, in particolare, deve essere definita come “un’azione od omissione che ex se procura la morte, allo scopo di porre fine a un dolore”.

La sedazione profonda, invece, è la “somministrazione intenzionale di farmaci, nella dose necessaria richiesta, per ridurre, fino ad annullare, la coscienza del paziente, per alleviarlo da sintomi fisici o psichici intollerabili nelle condizioni di imminenza della morte con prognosi di ore o poco più per malattia inguaribile in stato avanzato e previo consenso informato”.

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Divorzio: assegno alla ex anche se il matrimonio è durato poco

Divorzio: assegno alla ex anche se il matrimonio è durato poco.

Per la Cassazione la scarsa durata della convivenza non costituisce un elemento idoneo a escludere il diritto all’assegno.

In presenza dei requisiti economici per il diritto dell’ex di ricevere l’assegno di mantenimento, al godimento del beneficio non osta la circostanza che il matrimonio ha avuto una durata limitata.

La Corte di cassazione ha avuto modo di affermarlo, recentemente, con la sentenza numero 15144/2018 qui sotto allegata, confermando la scelta del giudice del merito di riconoscere il diritto di una donna a ricevere l’assegno di mantenimento dal marito in ragione del divario reddituale che li separava e, in generale, della loro diversa posizione economica.

L’uomo si era rivolto ai giudici di legittimità per chiedere la riforma di tale decisione facendo leva, tra le altre cose, sulla circostanza che il legame coniugale si era protratto per poco tempo e non aveva quindi permesso il consolidamento di una comunione materiale e spirituale con l’ex moglie.

Per la Corte, però, la scarsa durata della convivenza, “non costituisce un elemento che possa indurre ad escludere il diritto all’assegno di mantenimento, peraltro sul rilievo che la durata del matrimonio non è un fattore della relativa attribuzione”.

Nel caso di specie si era avuta anche una sentenza di nullità del matrimonio non delibata, che è anch’essa stata reputata irrilevante dai giudici, posto che la stessa si è espressa solo sui presupposti della valida insorgenza del vincolo religioso.

A carico del ricorrente resta quindi definitivamente l’obbligo di corrispondere alla ex moglie i 250 euro mensili stabiliti per l’assegno di mantenimento.

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