Paga la Tares chi vive in una tenda

Paga la Tares chi vive in una tenda.
E’ quanto avvenuto a un uomo di Belluno, al quale Equitalia ha chiesto il pagamento del tributo nonostante la sua casa sia inagibile e non abitabile

tenda

La sua casa è inagibile e non abitabile e da anni è costretto a vivere in una tenda. Ma il comune gli ha intimato di pagare la Tares (oggi Tari), il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi. È quanto avvenuto a un uomo di Belluno, Andrej Jez, un tecnico industriale, musicista e liutaio polacco che da quasi 30 anni vive in Italia.

L’incubo per l’uomo, come riportato da Il Gazzettino, è iniziato con l’acquisto di un’abitazione a Ceresera in provincia di Belluno, per la quale, peraltro, sta ancora pagando il mutuo. Peccato che la casa però non abbia accessi né allacciamento alla fornitura idrica, per cui è ritenuta inagibile. E quindi Jez non può abitarvi e da anni è costretto a vivere in una tenda, montata esattamente di fronte alla porta di casa, in quanto sfrattato anche dall’alloggio comunale d’emergenza.

Nonostante ciò il comune gli intima il pagamento della tassa sui rifiuti.

L’uomo, che danni lotta per avere giustizia sulla sua abitazione, non si arrende e si reca più volte presso gli uffici per chiedere spiegazioni illustrando la sua drammatica situazione, ma invano.

E ancora dopo 12 anni, si ritrova nell’impossibilità di risolvere i problemi che hanno impedito l’accesso alla sua casa (attendendo la relativa documentazione da parte del Comune) e a vivere in una tenda, dovendo comunque pagare i tributi al fisco.

“Praticamente – si sfoga sulle pagine del giornale – a Ceresera non posso avere residenza, né domicilio. Allora perché devo pagare le tasse?”.

Presupposto del tributo sui rifiuti, come noto, è il possesso o la detenzione di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani.

E il Comune su tali presupposti è andato avanti e nel frattempo alla porta di Jez (o meglio alla tenda) ha bussato Equitalia, intimando il pagamento della Tares.

fonte: http://www.studiocataldi.it/

Cartelle esattoriali, Consulta: sì ai ricorsi vicino casa

Cartelle esattoriali, Consulta: sì ai ricorsi vicino casa.

La Corte Costituzionale, con l’importante sentenza n. 44 del 3 marzo 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 546/92 nella parte in cui prevede che per le controversie proposte nei confronti dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997 è competente la Commissione Tributaria Provinciale nella cui circoscrizione i medesimi soggetti hanno sede, anziché quella nella cui circoscrizione ha sede l’ente locale impositore.

In sostanza, i ricorsi contro le cartelle esattoriali emesse dal concessionario della riscossione, se quest’ultimo ha sede in una provincia diversa da quella dell’ente impositore, devono essere proposti alla Commissione Tributaria Provinciale che ha la competenza territoriale su quest’ultimo, per evitare che il cittadino-contribuente debba sobbarcarsi costi aggiuntivi tali da rendere estremamente difficoltoso, nonché costoso, l’esercizio del proprio diritto di difesa o addirittura da indurlo a rinunciare ad impugnare la cartella esattoriale o l’avviso di pagamento.

La giurisprudenza costituzionale riconosce, infatti, un’ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali (tra le ultime, sentenze n. 23 del 2015, n. 243 e n. 157 del 2014), anche in materia di competenza (ex plurimis, sentenze n. 159 del 2014 e n. 50 del 2010).

Resta naturalmente fermo il limite della manifesta irragionevolezza della disciplina, che si ravvisa, con riferimento specifico al parametro evocato, ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenza n. 335 del 2004).

In generale, la Corte Costituzionale ha chiarito, con riferimento all’art. 24 Cost., che «tale precetto costituzionale “non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti (…) purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale” (sentenza n. 63 del 1977; analogamente, cfr. sentenza n. 427 del 1999 e ordinanza n. 99 del 2000)» (ordinanza n. 386 del 2004).

Alla luce di questi principi, deve ritenersi che nella disciplina in esame il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia individuato un criterio attributivo della competenza che concretizza «quella condizione di “sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione” suscettibile “di integrare la violazione del citato parametro costituzionale” (così, nuovamente, la sentenza n. 237 del 2007)» (ordinanza n. 417 del 2007).

Difatti, poiché l’ente locale non incontra alcuna limitazione di carattere geografico-spaziale nell’individuazione del terzo cui affidare il servizio di accertamento e riscossione dei propri tributi, lo «spostamento» richiesto al contribuente che voglia esercitare il proprio diritto di azione, garantito dal parametro evocato, è potenzialmente idoneo a costituire una condizione di «sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione» (sentenze n. 117 del 2012, n. 30 del 2011, n. 237 del 2007 e n. 266 del 2006) o comunque a «rendere “oltremodo difficoltosa” la tutela giurisdizionale» (sentenza n. 237 del 2007; ordinanze n. 382 e n. 213 del 2005).

A questo proposito, lo stesso legislatore, all’art. 52, comma 5, lettera c), del d.lgs. n. 446 del 1997, ha precisato che l’individuazione, da parte dell’ente locale, del concessionario del servizio di accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate (determinante ai fini del radicamento della competenza) «non deve comportare oneri aggiuntivi per il contribuente».

Ebbene, il fatto che il contribuente debba farsi carico di uno «spostamento» geografico anche significativo per esercitare il proprio diritto di difesa integra un considerevole onere a suo carico.

Questo onere, già di per sé ingiustificato, diviene tanto più rilevante in relazione ai valori fiscali normalmente in gioco, che potrebbero essere come in concreto sono nella specie di modesta entità, e quindi tali da rendere non conveniente un’azione da esercitarsi in una sede lontana.

Quanto alla individuazione del criterio alternativo di competenza, essa non comporta un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte Costituzionale, in quanto non deve essere operata una scelta tra più soluzioni, tutte praticabili perché non costituzionalmente obbligate (sentenza n. 87 del 2013; ordinanze n. 176, n. 156 del 2013 e n. 248 del 2012).

Difatti, il rapporto esistente tra l’ente locale e il soggetto cui è affidato il servizio di accertamento e riscossione comporta che, ferma la plurisoggettività del rapporto, il secondo costituisca una longa manus del primo, con la conseguente imputazione dell’atto di accertamento e riscossione a quest’ultimo.

Ne consegue che, ritenuto irragionevole ai fini del radicamento della competenza territoriale, per le ragioni evidenziate, il riferimento alla sede del soggetto cui è affidato il servizio, non può che emergere il rapporto sostanziale tra il contribuente e l’ente impositore.

Alla sede di quest’ultimo ai fini della determinazione della competenza non vi è quindi alternativa.

E’ stata, pertanto, dichiarata, in accoglimento della sollevata questione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, con riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui prevede che per le controversie proposte nei confronti dei concessionari del servizio di riscossione è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione i concessionari stessi hanno sede, anziché quella nella cui circoscrizione ha sede l’ente locale concedente.

Deve essere, infine, preso in considerazione l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo vigente a seguito della sostituzione operata dall’art. 9, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 156 del 2015.

Infatti, «”l’apprezzamento di questa Corte, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, non presuppone la rilevanza delle norme ai fini della decisione propria del processo principale, ma cade invece sul rapporto con cui esse si concatenano nell’ordinamento, con riguardo agli effetti prodotti dalle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionali” (sentenza n. 214 del 2010)» (sentenza n. 37 del 2015).

In applicazione del citato art. 27, quindi, trattandosi di disposizione sostitutiva contenente disposizioni analoghe in contrasto coi principi affermati nella odierna decisione (sentenze n. 82 del 2013, n. 70 del 1996 e n. 422 del 1995), deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1,del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo vigente a seguito della sostituzione operata dall’art. 9, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 156 del 2015, nella parte in cui prevede che per le controversie proposte nei confronti dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 446 del 1997 è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione i medesimi soggetti hanno sede, anziché quella nella cui circoscrizione ha sede l’ente locale impositore.

In conclusione, è stata dichiarata, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo vigente a seguito della sostituzione operata dall’art. 9, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 156 del 2015, nella parte in cui prevede che per le controversie proposte nei confronti dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali) è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione i medesimi soggetti hanno sede, anziché quella nella cui circoscrizione ha sede l’ente locale impositore.

In definitiva, questa importante sentenza della Corte Costituzionale rende meno difficoltosa la difesa del cittadino-contribuente nei confronti dell’agente di riscossione.

fonte: http://www.altalex.com/

La Commissione Tributaria Provinciale di Lecce annulla due provvedimenti di Equitalia

La Commissione Tributaria Provinciale di Lecce annulla due provvedimenti dell’agente per la riscossione.

Una importantissima sentenza, la n. 478/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce dell’11 febbraio 2016, ha condannato Equitalia perché non ha rispettato il codice deontologico dei concessionari (Decreto Ministero delle Finanze n. 280 del 16/11/2000) oltre all’articolo 10 comma 1 della Legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), inoltre perché voleva iscrivere un’ipoteca di oltre 1 milione e mezzo di euro senza prima instaurare il contraddittorio con il contribuente, come previsto dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia Europea, anche perchè aveva illegittimamente respinto una richiesta di rateizzazione.

La decisione che ha accolto le doglianze del ricorrente difeso dall’avvocato Maurizio Villani, ha un rilevo nazionale, sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, perché stabilisce dei principi che Equitalia deve rispettare per evitare gravi danni economici al contribuente.

Nella fattispecie, si tratta di un’azienda leccese del settore calzaturiero con oltre 100 dipendenti.Appunto per questo, Equitalia Lecce oltre ad aver visto annullati sia il provvedimento di comunicazione di iscrizione ipotecaria che il diniego di rateizzazione, è stata condannata anche a pagarele spese legali per oltre 8.500 euro ed accessori.

fonte: http://www.studiotributariovillani.it/

Una importantissima sentenza, la n. 478/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce dell’11 febbraio 2016, ha condannato Equitalia perché non ha rispettato il codice deontologico dei concessionari (Decreto Ministero delle Finanze n. 280 del 16/11/2000) oltre all’articolo 10 comma 1 della Legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), inoltre perché voleva iscrivere un’ipoteca di oltre 1 milione e mezzo di euro senza prima instaurare il contraddittorio con il contribuente, come previsto dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia Europea, anche perchè aveva illegittimamente respinto una richiesta di rateizzazione.La decisione che ha accolto le doglianze del ricorrente difeso dall’avvocato Maurizio Villani, ha un rilevo nazionale, sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, perché stabilisce dei principi che Equitalia deve rispettare per evitare gravi danni economici al contribuente.

Nella fattispecie, si tratta di un’azienda leccese del settore calzaturiero con oltre 100 dipendenti.Appunto per questo, Equitalia Lecce oltre ad aver visto annullati sia il provvedimento di comunicazione di iscrizione ipotecaria che il diniego di rateizzazione, è stata condannata anche a pagarele spese legali per oltre 8.500 euro ed accessori.

Giudice “condanna” Equitalia: annullati totalmente gli interessi perché non motivati

Giudice “condanna” Equitalia: annullati totalmente gli interessi perché non motivati.

Una sconfitta, sonora, quella dell’Agenzia di riscossione delle tasse.

Una batosta che fa rialzare la testa ad artigiani e semplici cittadini tartassati dal Fisco.
Con l’ importantissima sentenza, la n. 620/2016 depositata in data 26 febbraio, la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, ha cancellato la cartella esattoriale per il valore complessivo di 86.822,59 euro.

E a stupire non è solo l’entità dell’annullamento, ma le motivazioni scritte dal giudice nella sentenza. che ha annullato totalmente gli interessi, perché non motivati, e contemporaneamente anche l’aggio la cui determinazione non è suscettibile di alcun controllo, per mancato riferimento normativo ed indicazione della percentuale.

La decisione che ha accolto le doglianze del ricorrente difeso dall’avvocato Maurizio Villani, ha un rilievo nazionale, sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, perché stabilisce dei principi che Equitalia deve rispettare per evitare gravi danni economici al contribuente. Un cambio di prospettiva che alleggerisce il peso sulle spalle di artigiani e commercianti che si trovassero in contenzioso con il fisco.

Secondo lo “Sportello dei Diritti” che ha seguito la vicenda, la sentenza potrebbe provocare un precedente in giurisprudenza capace di annullare migliaia di cartelle esattoriali e fa comprendere a Equitalia che nella cartella esattoriale devono essere sufficientemente motivate tutte le voci.

fonte: http://www.studiotributariovillani.it/

Agenzia delle Entrate ed Equitalia fermate dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari sezione di Lecce

Agenzia delle Entrate ed Equitalia fermate dalla Commissione Tributaria Regionale di Bari sezione di Lecce.

Sospeso per la prima volta in Italia dopo la riforma “Villani” del processo tributario, un atto di accertamento cui era seguita una cartella esattoriale di oltre 176mila euro, in pendenza di un ricorso per Cassazione.

Un’ordinanza che farà certamente discutere e che risulta essere la prima in Italia in materia, la n. 217/2016 depositata in segreteria il 29/02/2016 della Commissione Tributaria Regionale di Bari – Sez. staccata di Lecce – Sez. 23, ritirata oggi, che ha disposto su specifica istanza del difensore del contribuente, avvocato Maurizio Villani, la sospensione dell’esecuzione dell’atto originario di accertamento, ai sensi e per gli effetti del nuovo art. 62-bis, comma 1°, secondo periodo, D.Lgs. n. 546/92, aggiunto con le modifiche del D.Lgs. n. 156 del 24/09/2015, che ha ripreso la specifica proposta modificativa del tributarista leccese, secondo cui “Il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile”.

In questo modo, pur in pendenza di un ricorso per Cassazione, come nella fattispecie in oggetto, i giudici tributari, con la sospensione dell’esecuzione dell’atto di accertamento, hanno impedito all’Agenzia delle Entrate di richiedere il pagamento dell’imposta provvisoria ai sensi dell’art. 68 D.Lgs. n. 546 cit. sia per quanto riguarda l’iscrizione provvisoria iniziale del terzo sia per quanto riguarda le successive iscrizioni provvisorie a seguito di sentenza, come previsto dal succitato art. 68, comma 1°, lett. a), b) e c).

La prima applicazione pratica del succitato art. 62-bis, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, tutela maggiormente il contribuente, rispetto alla precedente normativa processuale, ed è augurabile che i giudici tributari di secondo grado la possano applicare in futuro, logicamente se rilevano il danno grave ed irreparabile, di cui al succitato comma 1, seconda parte, senza dover considerare il fumus boni iuris, ossia la verosimile sussistenza del proprio diritto, non richiesto in questa specifica fattispecie, come peraltro precisato dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/E del 29/12/2015.

Nella fattispecie al contribuente che aveva presentato ricorso innanzi alla Suprema Corte è stato sufficiente dimostrare la sussistenza di un pregiudizio grave ed irreparabile determinato dalla propria precaria situazione economica per ottenere la sospensione dell’atto di accertamento e la possibilità che il Fisco proceda coattivamente verso lo stesso.

fonte: http://www.studiotributariovillani.it/

L’imposta di registro non è dovuta se l’operazione è esente IVA

L’imposta di registro non è dovuta se l’operazione è esente IVA.

Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza numero 24268/2015 l’imposta di registro non è dovuta se l’operazione cui si riferisce è esente IVA.

La sentenza in oggetto interviene su un punto molto complesso della normativa tributaria ovvero il principio di alternatività tra IVA e imposta di registro.

Ecco i punti principali della sentenza della Consulta in materia di alternatività fra IVA e imposta di registro e gli effetti che essa potrà produrre.

La vicenda che ha portato alla sentenza numero 24268 del 27 novembre 2015 parte dalla notifica, da parte dell’Agenzia delle Entrate, di un avviso di liquidazione ad una società di capitali contenente l’omessa registrazione di un contratto di finanziamento infruttifero ricevuto da una società controllante.
L’Agenzia delle Entrate pretendeva il versamento dell’imposta di registro al 3%, il bollo e le sanzioni e gli interessi relativi al mancato versamento.

La società di capitali in oggetto decide quindi di impugnare il provvedimento di fronte ai giudici tributari.
La difesa si è basata sul fatto che il contratto, poiché tassabile solo in caso d’uso essendosi formato per corrispondenza, è soggetto ad imposta in misura fissa.
Entrambi i collegi di primo e secondo grando hanno però dato torto a questa interpretazione, confermando la legittimità della pretesa da parte dell’Agenzia delle Entrate.

In particolare, la sentenza di appello contestava al contribuente l’assenza di prova sul perfezionamento per corrispondenza del contratto.
Non veniva però rilevato alcun elemento in ordine alla correlazione tra imposta di registro (in misura fissa ovvero variabile) e esenzione IVA dell’operazione considerata.

Dopo le due sconfitte giudiziarie in primo e secondo grado, la società ricorrente decide quindi di presentare ricorso in Cassazione, adducendo un vizio di motivazione nella sentenza d’appello.
La Corte di Cassazione ha quindi accolto il ricorso della società, ancorché per motivazioni differenti rispetto a quelle indicate dal contribuente medesimo.
In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato come nella sentenza di appello sia stata confermata l’applicazione dell’imposta di registro poiché si trattava di un’operazione non rilevante ai fini IVA.

Ciò non è corretto, secondo la sentenza della cassazione, per due ordini di motivi:

– i prestiti di denaro sono esenti da Iva quando possono essere considerati operazioni di finanziamento in applicazione del successivo articolo 10, numero 1, dello stesso decreto IVA. Da ciò consegue che tali operazioni, anche se in astratto, devono essere considerate soggette a Iva (per un approfondimento pratico sul tema delle operazioni in esenzione IVA vedi «Esenzione IVA articolo 10: esempi e normativa di riferimento»);

– la normativa in materia di imposta di registro (vedi d.p.r. 131/1986) prevede il principio di alternatività tra le due imposte: non devono, infatti, versare l’imposta di registro proporzionale le operazioni soggette all’Iva, includendo tra queste anche le operazioni esenti IVA articolo 10. Viene così affermato il principio per cui, in funzione dell’alternatività tra Iva e imposta di registro, gli atti soggetti agli adempimenti IVA, anche solo formali poiché esenti Iva, non devono scontare l’imposta di registro in misura proporzionale.

fonte: https://www.forexinfo.it/

Liti tributarie: a chi va spedito il ricorso

Liti tributarie: a chi va spedito il ricorso.

Il d.lgs. 156/2015 e le recenti pronunce della Cassazione individuano la parte pubblica nei procedimenti tributari e nei vari gradi di giudizio.

Chi si trova ad affrontare controversie in materia tributaria rischia di incorrere in difficoltà già dalle prime battute, ossia nella identificazione della parte pubblica alla quale notificare il ricorso: infatti, l’Agenzia delle Entrate ha una morfologia articolata in numerosi uffici, “centrali e periferici”, “regionali e provinciali” (a loro volta articolati in strutture di vertice ed uffici dipendenti).

A rendere più agevole l’individuazione del destinatario del ricorso è intervenuto il D.lgs. n. 156/2015 che è andato a modificare il d.lgs. 546/1992 sul processo tributario: l’art. 10 del decreto del ’92 chiarisce che “Sono parti nel processo dinanzi alle commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, gli altri enti impositori, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, che hanno emesso l’atto impugnato o non hanno emesso l’atto richiesto”.

Il ricorso potrà dunque essere indirizzato agli enti locali impositori, all’agente che ha emesso l’atto impugnato (es. avviso di accertamento o di rettifica), oppure che ha negato quello richiesto (es. riborso o l’agevolazione): in sostanza, la legittimazione passiva spetta all’articolazione periferica dell’Agenzia delle Entrate (o delle Dogane), competente per territorio, sia in primo che in secondo grado, a cui il ricorrente/contribuente dovrà notificare il ricorso introduttivo.

Sempre secondo la normativa summenzionata, gli uffici nei confronti dei quali è proposto il ricorso potranno avvalersi dell’Avvocatura dello Stato oppure stare in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata, che potrebbe valutare di occuparsi in prima persona della trattazione del contenzioso.

In materia è intervenuta anche la Corte di legittimità, che, nella sentenza n. 18936/2015 ha precisato che, in base al combinato disposto dagli arti. 10, co. 1, e 23, co l, del Dlgs n. 546/1992, la qualità di “parte nel processo” debba comunque essere riconosciuta, anche in ipotesi di una eventuale “sostituzione” da parte dell’organo gerarchicamente sovraordinato ai sensi dell’art. 11, co. 2, Dlgs n. 546/1992, all’ “ufficio provinciale periferico” della Agenzia fiscale “che ha emanato” l’avviso di rettifica o di accertamento eal quale il ricorso introduttivo è stato notificato dal contribuente.

Ciò significa che l’ufficio provinciale che ha emanato l’avviso di rettifica o di accertamento opposto, considerato parte processuale ex lege del processo tributario, stante la decorrenza dei termini per l’impugnazione in Cassazione, è legittimato a ricevere la notifica della sentenza di merito (infatti, nel caso esaminato dalla Cassazione il ricorso dell’Agenzia è stato ritenuto tardivo in quando ha omesso di considerare l’avvenuta otifica della sentenza presso la direzione provinciale).

Anche per il giudizio in appello, la Cassazione ha precisato che l’ufficio locale dell’Agenzia che ha emanato l’atto impugnato è legittimato ad essere parte del giudizio di merito, senza necessita di una procura da parte dell’ufficio superiore, essendo la procura necessaria solo quando non vi sia legittimazione processuale diretta (sentenza 10736/2014).

Va evidenziato che la disciplina del d.lgs. 546, tuttavia, si applica solo al processo tributario di merito e non in sede di legittimità, dove è stabilito che l’Avvocatura dello Stato difende in via esclusiva le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici autorizzati, come è previsto per le agenzia fiscali.

Mentre l’assistenza dell’Avvocatura è eventuale in sede di merito, diviene indispensabile in Cassazione per la parte processuale, sia ricorrente che resistente, che è l’Agenzia, ente-organo nella sua interezza: pertanto il ricorso in Cassazione andrà notificato a cura di parte soccombente presso la direzione centrale del’Agenzia, che poi si occuperà di informare gli uffici periferici al fine di ottenere la trasmissione degli atti all’Avvocatura dello stato per la difesa in giudizio.

La regola del necessario patrocinio dell’Avvocatura dello Stato non interviene, invece, per quanto riguarda Equitalia: essendo una s.p.a., l’esattore non rappresenta un’amministrazione dello Stato né un ente autorizzato, quindi dovrà farsi assistere da legali dotati di apposita procura.

fonte: http://www.studiocataldi.it/

Pagamento del canone televisivo: la pronuncia della Cassazione

Pagamento del canone televisivo: la pronuncia della Cassazione

Con l’ordinanza n. 1922 del 2/02/2016 la Corte di Cassazione esamina la questione relativa al pagamento del canone televisivo nel caso in cui l’utente abbia richiesto l’oscuramento dei canali RAI.

RAI: CDA APPROVA BILANCIO, 9 MESI IN PERDITALa Commissione Tributaria Regionale del Lazio annullava una cartella di pagamento emessa nei confronti di un contribuente per omesso pagamento del canone televisivo per gli anni dal 2002 al 2007, ritenendo che il canone non dovesse essere pagato in quanto nel 2002 l’utente aveva richiesto l’oscuramento delle reti Rai e nel 2008 aveva dichiarato l’inutilizzo dell’apparecchio televisivo perché rotto.

Peraltro, rilevava la Corte territoriale, le argomentazioni del contribuente non erano state contestate dalle controparti, con la conseguenza che se ne doveva presumere la relativa fondatezza “quantomeno in applicazione del principio di non contestazione, previsto dall’art. 115 c.p.c.

L’Agenzia delle entrate ricorre contro l’utente e nei confronti di Equitalia Sud per la cassazione della sentenza, lamentando che la Commissione Tributaria aveva errato nel ritenere che la richiesta di oscuramento dei canali Rai facesse venir meno l’obbligo di pagamento del canone radiotelevisivo, sul rilievo della non contestazione di tale tesi da parte dell’Agenzia delle entrate e dell’ Agente della riscossione.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rilevando che:

1. L’assunto su cui si fonda la decisione della sentenza gravata (“le argomentazioni del contribuente dovrebbero presumersi fondate perchè non contestate da parte degli interpellati”) viola l’art. 115 c.p.c. che riferisce l’onere di contestazione alle allegazione di fatto e non alle prospettazioni in diritto della controparte.

2. La decisione impugnata contrasta con la disciplina del canone radiotelevisivo dettata dal R.D.L. n. 246/1938, che non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente all’Ente, la Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, ma costituisce una prestazione tributaria fondata sulla legge e non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio

3. La richiesta di oscuramento dei canali Rai non rientra nel novero dei fatti estintivi dell’obbligo di pagamento del canone previsti dall’art. 10 di tale R.D.L..

fonte: http://www.avvocatoandreani.it/

Gratuito patrocinio, Stabilità 2016: i crediti dell’avvocato si compensano con le tasse

Gratuito patrocinio, Stabilità 2016: i crediti dell’avvocato si compensano con le tasse

Per limitare gli effetti negativi conseguenti ai ritardi dello Stato nei pagamenti dei crediti da gratuito patrocinio, con la Legge di Stabilità 2016 è stata prevista per gli avvocati, che vantano crediti per spese di giustizia nei confronti dello Stato, di porre tali somme in compensazione con quanto dovuto per imposte, tasse e contributi previdenziali.

legge_stabilitaL’art. 24 Cost. prevede per ogni cittadino il diritto alla difesa quale diritto inviolabile, a garanzia del quale sussiste il riconoscimento dell’assistenza legale gratuita in favore delle persone che non hanno i mezzi necessari per sostenere le spese per promuovere un giudizio o per difendersi dinanzi al giudice.

Per dare concreta attuazione all’art. 24 Cost., è stato introdotto l’istituto del c.d. gratuito patrocinio, disciplinato dal d.P.R. 30.5.2002 n.115 (art.74-141), istituto che garantisce ai non abbienti, che non sono in grado di sostenere i costi della propria difesa, il diritto di farsi assistere da un avvocato, il cui onorario è a carico dello Stato.

Si può fare ricorso al gratuito patrocinio per farsi assistere in sede civile, penale, tributaria, amministrativa, procedure di volontaria giurisdizione, “scegliendo” l’avvocato in appositi elenchi. Non sono previste formalità particolari in quanto la domanda, in carta semplice, può essere presentata (al Consiglio dell’Ordine degli avvocati) personalmente ovvero dal difensore che autenticherà la firma, in ogni stato e grado del processo.

Hanno diritto al gratuito patrocinio sia i cittadini italiani che stranieri, il cui nucleo familiare sia titolare di un reddito imponibile non superiore ad un determinato importo, aggiornato ogni due anni (allo stato, il reddito è di € 11.528,41 lordi), e per reati particolari prescindendosi dal reddito.

Il funzionamento dell’istituto del gratuito patrocinio, in questi ultimi anni è stato inficiato dalla eccessiva lentezza del pagamento degli importi delle parcelle dovute da parte dello Stato a seguito dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, con ritardo nei pagamenti anche oltre i 24 mesi. L’eccessivo ritardo nel pagamento delle competenze liquidate nell’ambito del patrocinio a spese dello Stato, rischia, però, di depotenziare l’istituto del gratuito patrocinio, preposto a garantire il rispetto dei principi costituzionali del diritto alla difesa e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Per limitare gli effetti negativi conseguenti ai ritardi dello Stato nei pagamenti dei crediti da gratuito patrocinio, con la legge di stabilità 2016 (art. 1, comma 778, della l. 28.12.2015 n. 208), sono state introdotte norme tese a rafforzare l’effettività e l’efficacia dell’istituto del gratuito patrocinio, prevedendo per gli avvocati che vantano crediti per spese di giustizia nei confronti dello Stato, di porre tali somme in compensazione con quanto dovuto per imposte, tasse e contributi previdenziali, rendendo così più appetibile per i legali il ricorso all’istituto del gratuito patrocinio.

La nuova disciplina del “pagamento” dei compensi per gratuito patrocinio.

Con la pubblicazione della l. 28.12.2015 n. 208 (in Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30.12.2015), è stata incentivata la scelta del gratuito patrocinio da parte dell’avvocato, prevedendo:

– per l’avvocato, la possibilità di compensare la propria parcella liquidata tramite il gratuito patrocinio con ogni importo e tassa dovuta allo Stato, pagando così meno tasse;
– per la parte meno abbiente, la possibilità di scegliere in un “bacino” più ampio di avvocati (senza avvocati disponibili ad offrire il loro ministero non vi può essere effettiva giustizia).

Infatti, l’art. 1, comma 778, l. n. 208/15, prevede che a decorrere dall’anno 2016 i soggetti che vantano crediti per spese, diritti e onorari di avvocato, sorti per assistenza e difesa per gratuito patrocinio di cui al d.P.R. 30.5.2002 n. 115, sono ammessi alla compensazione con quanto da essi dovuto per ogni imposta e tassa, sia pure con alcuni limiti “quantitativi”.

In pratica, per gli avvocati che hanno crediti per spese, diritti e onorario da gratuito patrocinio, viene ammessa la compensazione di questi ultimi con quanto dai soggetti stessi dovuto all’erario per ogni imposta e tassa, compresi l’Iva, nonché al pagamento dei contributi previdenziali per i dipendenti mediante cessione anche parziale dei predetti crediti entro il limite massimo pari all’ammontare dei crediti stessi, aumentato dell’IVA e del contributo previdenziale per gli avvocati.

Certamente la riferita normativa rafforzerà l’effettività e l’efficacia dell’istituto del gratuito patrocinio, la cui importanza è cresciuta in questi ultimi tempi a causa della crisi economica che ha costretto persone non abbienti a farvi ricorso. La normativa rappresenta nel contempo anche una “boccata d’ossigeno” per l’Avvocatura, in quanto da una parte i loro redditi in questi ultimi anni si sono notevolmente ridotti, e dall’altra hanno sempre più difficoltà ad “incassare” dallo Stato in tempi ragionevoli quanto loro spettante per compenso da gratuito patrocinio.

La nuova disciplina della compensazione dei crediti da gratuito patrocinio con le tasse decorre dall’anno 2016, entro il limite di spesa di 10 milioni di euro annui.

Per l’effettività della compensazione, la legge n. 208/2015 (art. 1, comma 778) prevede, però, espressamente che con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia, da emanare entro 60 giorni, sono stabiliti criteri, priorità e modalità per l’attuazione delle misure (di cui al comma 778) e per garantire il rispetto del limite di spesa dei 10 milioni annui (è l’importo “vicino” a quello che lo Stato ha sopportato negli ultimi anni per coprire le spese del gratuito patrocinio).

L’emanando decreto interministeriale dovrà, quindi, prevedere i criteri e le modalità per poter effettuare la compensazione, e quali “crediti” poter compensare.

Stante il limite di spesa di 10 milioni (comunque da rispettare), ed i crediti da gratuito patrocinio degli avvocati che sono lievitati in questi ultimi anni, è difficile che “tutti” gli avvocati rientreranno nel beneficio della compensazione; comunque, il giudizio sulla normativa in questione è “rimandato” all’emanando decreto interministeriale che, come detto, dovrà stabilire, criteri, priorità e modalità per la compensazione di cui all’art.1, comma 778, l.n.208/15 e per garantire il rispetto del limite di spesa dei 10 milioni di euro annui.

I crediti da gratuito patrocinio “compensabili”

Sono ammessi a compensazione ex art. 1, comma 778, l. n.208/2015, i crediti per spese, diritti e onorari di avvocati da gratuito patrocinio ex d.P.R. n.115 del 2002, in qualsiasi data maturati e non ancora saldati.

Sono, quindi, ammessi a compensazione anche i crediti maturati antecedentemente al 2016 e non ancora saldati (e, comunque, non contestati).

La compensazione è prevista con un limite pari all’ammontare dei crediti stessi, aumentato dell’Iva e del contributo previdenziale per la cassa forense.

Condizione per la compensazione è che deve trattarsi di crediti maturati e non ancora saldati, e comunque crediti per i quali non è stata proposta opposizione ai sensi dell’art.170 del d.P.R. n. 115 del 2002 (cioè per quei crediti per i quali non è stata presentata contestazione).

E’ ammessa anche la compensazione parziale. Infatti, è espressamente previsto che la compensazione (o la cessione) dei crediti può essere effettuata anche parzialmente ed entro un limite massimo pari all’ammontare dei crediti stessi, aumentato dell’IVA e del contributo previdenziale per gli avvocati.

L’avvocato può compensare il credito da gratuito patrocinio con quanto da lui dovuto per ogni imposta e tassa, compresa l’imposta sul valore aggiunto (IVA), nonché per il pagamento dei contributi previdenziali per i dipendenti mediante cessione, anche parziale, dei crediti da gratuito patrocinio, entro il limite massimo pari all’ammontare dei crediti stessi, aumentato dell’iva e del contributo previdenziale per gli avvocati.

In ordine alla possibilità per l’avvocato di pagare anche i contributi previdenziali dovuti alla cassa forense con i crediti derivanti dal gratuito patrocinio, nulla “dice” il citato comma 778 dell’art.1, l. n. 208/15, limitandosi la norma ad affermare che la compensazione è ammessa con quanto dovuto per ogni imposta e tassa… “nonché al pagamento dei contributi previdenziali per i dipendenti mediante cessione, anche parziale, dei predetti crediti….”. Poiché la norma parla di cessione del credito, è da ritenersi che, concordando le parti, nulla vieta di cedere il credito da gratuito patrocinio per il pagamento anche dei contributi previdenziali alla cassa forense. E’ da evidenziare, però, che solo all’avvocato spetta la scelta se cedere o meno i crediti da gratuito patrocinio per pagare o meno i contributi alla cassa. Occorre evidenziare che in caso di cessione parziale dei crediti da gratuito patrocinio, il compenso residuo va “accreditato” all’avvocato.

Le riferite cessioni, come prevede espressamente, la norma, sono esenti da ogni imposta di bollo e di registro.

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Fisco: auto di lusso e mutuo non giustificano l’accertamento

Fisco: auto di lusso e mutuo non giustificano l’accertamento.

Il mutuo sostenuto con i ricavi di una vendita e le auto strumentali all’attività professionale non sono indicativi di incrementi patrimoniali

bmw-708605_960_720Talvolta a far ricorso avverso un accertamento del fisco conviene. Non sempre, infatti, il comportamento dell’amministrazione è impeccabile…e a farne le spese sono i contribuenti che non “osano” pur sapendo di aver ragioni da far valere.

Ha osato invece un uomo che era stato sottoposto ad accertamenti a causa del possesso di auto di lusso acquistate in leasing e dell’accollo del mutuo di un immobile.

Dinanzi all’accertamento con il quale il fisco aveva rideterminato il reddito del contribuente con metodo sintetico, l’uomo non ci è stato e ha proposto ricorso alla commissione tributaria provinciale competente. Per il contribuente, l’amministrazione non aveva tenuto conto che le auto erano dei beni strumentali utili per la sua attività professionale e che erano stati acquistati con denaro sottratto ai ricavi aziendali.

Con riferimento al mutuo, invece, esso era sostenuto in parte attraverso i ricavi della vendita di un altro cespite e l’immobile al quale si riferiva era intestato alla ex moglie del contribuente, che vi viveva con la figlia dei due.

La c.t.p. dà ragione all’uomo che, tuttavia, è costretto a subire l’appello dell’erario.

Ma con sentenza numero 6264/2015, la quarta sezione della commissione tributaria regionale di Roma ha confermato le ragioni del contribuente.

Il fisco, infatti, non aveva tenuto in debita considerazione le argomentazioni dell’uomo con riferimento ai beni strumentali.

Inoltre, non aveva neanche correttamente valutato la circostanza della sussistenza di redditi aggiuntivi del contribuente, documentalmente provata, in grado di giustificare adeguatamente sia il mutuo che la locazione della casa in cui egli viveva

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