Conto corrente condominiale? Si può pignorare

Conto corrente condominiale? Si può pignorare.

Secondo la giurisprudenza recente il conto corrente condominiale è pignorabile senza che questo comporti la lesione del principio della preventiva escussione.

Dopo la riforma del 2012 una delle questioni su cui la giurisprudenza si è interrogata di più è quella relativa alla pignorabilità del conto corrente condominiale. Alcune sentenze piuttosto recenti considerano il condominio come un’entità distinta e in quanto tale titolare di un conto corrente separato da quello dei singoli condomini. Per questo non si rischia di ledere l’art. 63 disp att. c.c., che vieta al creditore di escutere i condomini in regola se non dopo aver agito nei confronti di quelli morosi. Questa regola infatti vale quando il creditore agisce in via parziaria, non sul Condominio nel suo complesso.

Conto corrente e debiti condominiali: cosa dice la legge?
Il comma 7 dell’art. 1129 c.c. dispone che: “L’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio.” Il condominio quindi ha un suo conto corrente per far fronte alle spese comuni. Esiste però un prinicpio in materia di debiti condominiali per tutelare i condomini in regola con i pagamenti rispetto a quelli morosi. Si tratta dell’art. 63 disp att. c.c. secondo il quale “I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini.”

Da una parte quindi una norma da cui si desume l’esistenza di un conto corrente intestato al Condominio nel suo complesso e dall’altra una che protegge i condomini virtuosi, per i quali la tutela approntata dall’art. 63 disp. att. c.c. rischia di essere vanificata nel momento in cui le somme confluiscono nel conto corrente comune. Vediamo come sta affrontando il problema la giurisprudenza.

E’ legittimo pignorare il conto del condominio?
La prima pronuncia ha a che fare con una causa che vede contrapposti un Condominio e una società di servizio idrico integrato, che agisce esecutivamente per il recupero del quantum dovuto. Il Condominio si oppone perché, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c., i creditori non possono agire nei confronti dei condomini che risultano in regola con i pagamenti, se non dopo aver escusso quelli morosi.

La sentenza del Tribunale di Cagliari del 27 febbraio 2018 che chiude la presente vertenza ritiene che l’azione esecutiva è legittima perché sia l’utenza idrica che il conto corrente sono intestati al Condominio. Agendo in questi termini non si vanno a ledere gli interessi dei condomini in regola, come sancito dall’art 63 disp. att. c.c. Secondo il tribunale sardo infatti il Condominio è un’entità distinta dai condomini che ne fanno parte e il conto a questo intestato è distinto da quello dei singoli condomini, poiché dal momento che in esso versano denaro, ne perdono la disponibilità. Qualche dubbio resta, anche se la sentenza in esame non è un caso isolato.

Sono diverse infatti le pronunce pro pignorabilità del conto corrente condominiale:
– secondo una pronuncia del 2014 del Tribunale di Pescara l’art. 63 disp att. c.c. prevede l’obbligo di preventiva escussione del condomino moroso, ma non del Condominio nel suo complesso. Al creditore pertanto non è vietato aggredire immediatamente il conto condominiale;
– per una sentenza del Tribunale di Bologna del 2014 il conto corrente condominiale è aggredibile perché il vincolo di destinazione imposto alle somme in esso versate recide ogni legame con quelle proprie dei singoli condomini;
– per una decisione del Tribunale di Milano del 2014 infine il Condominio ha un patrimonio distinto da quello dei condomini, come emerge dalla formula che vieta la “confusione di cassa” tra conto condominiale e conti dei singoli condomini.

Il conto corrente è patrimonio del condominio?
Altra importante conferma alle tesi giurisprudenziali menzionate viene dal Tribunale di Milano che, nell’articolata sentenza del novembre 2017 premette che, per effetto delle modifiche normative intervenute in materia condominiale può ritenersi esistente una sorta di “patrimonio del condominio” costituito dalle somme presenti sul conto corrente intestato allo stesso, anche se ancora privo di vincolo di destinazione degli importi. Non si può negare infatti che il conto corrente condominiale rappresenti una prima garanzia (art. 2744 c.c.) per i creditori del condominio, che potranno decidere se agire:
– per intero nei confronti del condominio, pignorando il conto condominiale;
– o in via parziaria verso singoli condomini, nel rispetto dell’art 63 disp. att. c.c. considerata l’esistenza contestuale di obbligazioni distinte: quelle relative all’intero debito in capo all’amministratore (nella qualità di mandatario dei singoli condomini) e quelle inerenti le singole quote dei condomini obbligati in virtù e in misura delle diverse quote di partecipazione.

Ne consegue che “là dove il creditore agisca per il recupero dell’intero credito in forza del contratto che lo lega al condominio (e non nei confronti dei singoli condomini tenuti alla contribuzione) non può trovare applicazione il disposto dell’art. 63 disp. att. c.c. perché lo stesso, pignorando il conto corrente condominiale, non “agisce nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti”, ma aggredisce il “patrimonio del condominio”, patrimonio che al condominio obbligato fa direttamente capo”.

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Tassa rifiuti: IVA sulle bollette legittime

Tassa rifiuti: IVA sulle bollette legittime.

Per la Cassazione essendo la TIA2 un corrispettivo, sarà dovuta l’Imposta sul Valore Aggiunto.

A differenza delle imposte precedenti, la Tariffa Integrata Ambientale di cui all’art. 238 del d.lgs. 152/2006 (c.d TIA2) deve ritenersi avere natura privatistica, ovvero di corrispettivo e non di tributo. Pertanto, questa sarà assoggettabile a IVA.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, terza sezione civile, nell’ordinanza n. 16332/2018 mettendo un punto a una vicenda che aveva visto un contribuente contro un’azienda di rifiuti di Venezia. La pronuncia, tuttavia, è destinata ad avere rilevanti conseguenze non solo nei confronti degli oltre trecento Comuni in cui la TIA2 è stata applicata, ma anche su scala nazionale.

La prima versione, la c.d. TIA1, introdotta nel 1997, era stata espressamente ritenuta dalla Corte Costituzionale (sent. n. 238/2009) un tributo e non una tariffa, ciò comportando, dunque, che l’IVA fosse illegittima non potendosi applicare un’imposta su una tassa.

Diverso, secondo i giudici di legittimità, il discorso riferibile alla TIA2 applicata dal 2006, che rappresenterebbe una tariffa vera e propria, nonostante chiunque produca rifiuti nei Comuni dov’è applicata debba obbligatoriamente pagarla per legge.

È la legge, infatti, a qualificare espressamente come corrispettivo la “Tariffa Integrata Ambientale” (c.d. TIA2): questa, in particolare, è dovuta da “chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani”.

Essa costituisce “il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani”(art. 238, comma 1, d.lgs. 152/2006); la stessa, inoltre, viene “commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri (…) che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali”.

La natura “privatistica” della TIA2, e dunque la sua portata innovativa e ontologicamente diversa rispetto alla precedente TIA1, già desumibile dal tenore della norma istitutiva, è stata poi definitivamente confermata dall’art. 14, comma 33, del d.l. 78/2010, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122, il quale ha previsto che “le disposizioni di cui al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 238, si interpretano nel senso che la natura della tariffa ivi prevista non è tributaria. Le controversie relative alla predetta tan a, sorte successivamente alla data di entrata in vigore de/presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.

I giudici concludono, dunque, affermando il principio di diritto secondo cui: “La tariffa di cui all’art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (“Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani”, poi denominata “Tariffa Integrata Ambientale” – c. d. T142 -) come interpretata dall’art. 14, comma 33, del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla L n. 122 del 2010, ha natura privatistica, ed è pertanto soggetta ad IVA ai sensi degli artt. 1, 3, 4, co. II e III del d.p.r. 63311972″.

Ne deriva che, ove tale Tariffa sia stata in concreto adottata dal Comune, esercitando la facoltà concessagli, a decorrere dal 30/6/2010, dall’art. 5, comma 2-quater, del d.l. n. 208/2008, sarà legittima l’imposizione e riscossione dell’IVA sulle relative fatture.

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Stalking: è un reato di evento

Stalking: è un reato di evento.

La norma incriminatrice e le condotte tipiche del reato di atti persecutori (stalking) ex art. 612-bis del codice penale.

Stalking è un termine di origine anglosassone utilizzato in italiano per indicare una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo, detto stalker, il quale affligge un’altra persona, perseguitandola, generandole stati di paura e ansia e/o arrivando persino a compromettere lo svolgimento della normale vita quotidiana. Il primo Stato a introdurre il reato di stalking fu la California nel 1990 in seguito a diversi casi del genere quali come il tentato omicidio di Theresa Saldana, il massacro di Richard Farley, l’omicidio di Rebecca Schaeffer. In Italia, invece, le condotte tipiche dello stalking configurano il reato di “atti persecutori” previsto ex art. 612-bis c.p., introdotto con il dl n. 11/2009 (c.d. decreto Maroni).

L’illecito in esame è connotato dalla sussistenza di tre elementi costitutivi:

1) la condotta tipica del reo;

2) la reiterazione della stessa;

3) l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima o la causazione di modificazioni delle sue abitudini di vita;

La norma incriminatrice si apre anzitutto con una clausola di salvezza “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, la quale attribuisce a tale delitto valenza generica e sussidiaria rispetto ai reati di minaccia (art. 612 c.p.) e molestia (art. 660 c.p.).

La tipicità delle condotte di minaccia o di molestia è caratterizzata, per espressa volontà della norma incriminatrice, dalla loro reiterazione.

Su tale punto è stato già affermato come addirittura due soli episodi di minaccia o molestia possano valere ad integrare il reato di atti persecutori previsto dall’art. 612 bis c.p., se essi abbiano indotto gli effetti lesivi tipici della fattispecie (Cassazione penale, sez. V, 11/01/2011, n. 7601).

Il modello della figura degli atti persecutori evoca quindi la figura del cosiddetto reato abituale o a condotta reiterata.

E’ importante capire che lo stalking è un reato di evento e la norma richiede espressamente la realizzazione di uno tra i tre tipi di evento indicati ovvero:

– cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima;

– ingenerare nella stessa un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine;

– costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita;

E quindi di reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea ad integrarlo essendo sufficiente che ricorra solo uno degli eventi tipici indicati perchè si configuri i reato di stalking (Cfr. Cass. n. 17698/2010; n. 11945/2010).

La Cassazione ha sancito che “in tema di atti persecutori, la prova del nesso causale tra la condotta minatoria o molesta e l’insorgenza degli eventi di danno alternativamente contemplati dall’art. 612 bis cod. pen. (perdurante e grave stato di ansia o di paura; fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto; alterazione delle abitudini di vita), non può limitarsi alla dimostrazione dell’esistenza dell’evento, né collocarsi sul piano dell’astratta idoneità della condotta a cagionare l’evento, ma deve essere concreta e specifica, dovendosi tener conto della condotta posta in essere dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest’ultima nelle abitudini e negli stili di vita” (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la pressione ossessiva esercitata dall’imputato su una donna che aveva manifestato l’intenzione di interrompere la relazione sentimentale e la ravvisata invasione della sua sfera privata non includessero “in re ipsa” la determinazione di un perdurante e grave stato di ansia o di paura, potendo cagionare altri e diversi stati psicologici, come per esempio una forte irritazione) (cfr. Cass. n. 46179/2013).

Il delitto è punito a querela della persona offesa ed termine per la proposizione della querela è di sei mesi.

Infine, la reclusione per tale reato va da i sei mesi a cinque anni anche se la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

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Spese non liquidate in sentenza? Correzione errore materiale

Spese non liquidate in sentenza? Correzione errore materiale.

Per le Sezioni Unite di Cassazione si potrà ricorrere alla procedura di correzione dell’errore materiale se manca nel dispositivo la liquidazione delle spese annunciate nella parte motiva.

Se nel dispositivo della sentenza non vengono liquidate le spese che il giudice aveva, nella parte motiva, annunciato di voler porre a carico della parte soccombente, non sarà necessario impugnare il provvedimento potendosi all’uopo ricorrere alla procedura di correzione dell’errore materiale.

Diverso è il caso in cui nella parte motiva della pronuncia non sia stata espressa alcuna volontà di porre gli esborsi a carico del soccombente, configurandosi in tal caso un contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo che esclude il ricorso alla procedura ex articolo 287 e s.s. c.p.c. e seguenti per ottenere la quantificazione delle spettanze del difensore.

È il principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 16415/2018 che ha risolto un contrasto interpretativo allo scopo di realizzare i principi costituzionali della ragionevole durata del processo e del giusto processo.

La questione rimessa alle Sezioni Unite e ritenuta di particolare importanza, riguarda se, a fronte della mancata liquidazione delle spese in dispositivo, sebbene in parte motiva il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte soccombente, la parte interessata debba esperire gli ordinari mezzi di impugnazione oppure fare ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e ss. del codice di procedura civile.

In sostanza, punto nodale della questione, è se la procedura di liquidazione delle spese processuali richiede al giudice una mera operazione tecnico esecutiva, da svolgersi sulla base di presupposti e parametri oggettivi, o se invece, lungi dal caratterizzarsi come meramente vincolata e materiale, sia invece una espressione della potestas iudicandi.

La conclusione adottata sul punto dai giudici del Supremo Consesso nomofilattico giunge a seguito di un ampio e articolato ragionamento che affonda le sue radici nell’evoluzione della nozione di errore materiale, sia in dottrina che i giurisprudenza, e nella distinzione tra questo e il c.d. errore di giudizio.

Deve tuttavia ritenersi che la giurisprudenza e la dottrina più recenti abbiano superato le definizioni tradizionali relative alla distinzione fra i due tipi di errori: si è preferito escludere ogni indagine sulla volontà del giudice, ponendo in rilievo il fatto che l’errore materiale consiste in un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione nel provvedimento, purché questo sia evincibile dal confronto fra la parte inficiata dall’errore e le considerazioni contenute nella motivazione, per cui può dedursi che tale errore è dovuto ad una svista o a una disattenzione.

Sul punto viene ritenuta significativa la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, n. 16037/2010, che ha ritenuto debba considerarsi “errore materiale qualsiasi errore anche non omissivo che derivi dalla necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, oppure una statuizione obbligatoria di carattere accessorio anche se a contenuto discrezionale”.

Partendo da tali caratteri identificativi dell’ errore materiale, le Sezioni Unite richiamate hanno dunque ritenuto ammissibile la correzione quando l’omissione investa il solo dispositivo, considerandola più una mancanza materiale che non un vizio di attività o di giudizio da parte del giudice.

Nella sentenza in esame, i giudici hanno confermato, senza dubbio, la natura accessoria che la liquidazione delle spese riveste nell’economia della decisione, non incidendo sul contenuto sostanziale della stessa, in quanto totalmente estranea al merito del giudizio e alla pronunzia principale, se non per il rilievo della soccombenza.

L’attività di liquidazione delle spese processuali, in definitiva, finisce per consistere in uno svolgimento di un’operazione tecnico esecutiva da realizzare sulla scorta di presupposti e parametri oggettivi fissati dalla legge, e nei limiti quantitativi in essa previsti.

Di conseguenza, spiega la Cassazione, una volta che nella motivazione della sentenza il giudice abbia provveduto col porre le spese a carico del soccombente, l’omissione degli importi contenuta nel dispositivo della sentenza deve essere integrata con il procedimento di correzione degli errori materiali.

Tuttavia, il Collegio previsa che la parte motiva della sentenza dovrà necessariamente contenere la statuizione che pone le spese a carico del soccombente, perché solo in tal caso la divergenza fra la motivazione, che regola il carico delle spese fra le parti, e il dispositivo, in cui è stata omessa la liquidazione delle stesse, rientra nella statuizione principale.

In caso contrario, invece, la divergenza darebbe luogo a contrasto insanabile fra motivazione e dispositivo, che escluderebbe la procedura di correzione di errore materiale.

La possibilità di utilizzare la procedura della correzione degli errori materiali in ipotesi di omessa liquidazione delle spese processuali, concludono i giudici, risulta infatti funzionale alla realizzazione dei principi costituzionali della ragionevole durata del processo e del giusto processo.

Tale rimedio garantisce maggiore celerità ed è dunque il più consono a salvaguardare l’effettività di tale principio che impone al giudice, anche nell’interpretazione dei rimedi processuali, di evitare comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione della causa, evitando l’inutile dispendio di attività processuali, non giustificate né dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, nè da effettive garanzie di difesa.

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Caduta del pedone sul lucernario del marciapiede: paga il condominio

Caduta del pedone sul lucernario del marciapiede: paga il condominio.

Per la Cassazione, il condominio è tenuto al risarcimento dei danni subiti dal passante che inciampa nella piastrella mancante che copre il lucernario condominiale.

Quando un bene svolge la funzione di piano di calpestio per i passanti e la funzione di copertura per una proprietà sottostante, il ruolo di custode spetta anche a chi si giova della copertura.
Per tale ragione, è il condominio ad essere tenuto al risarcimento dei danni subiti dalla passante che abbia inciampato nella piastrella mancante di vetrocemento che copre il sottostante lucernario condominiale.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con ordinanza del 19 aprile 2018 n. 9625.

Il giudizio traeva origine dalla domanda proposta da una signora contro il comune di Cosenza per ottenere il risarcimento dei danni sofferti, allorché, mentre camminava sul marciapiede antistante lo stabile condominiale, era caduta a causa della mancanza di una piastrella di vetrocemento che copriva il sottostante lucernario condominiale.
Il comune si difendeva sostenendo di non essere legittimato passivo alla pretesa risarcitoria, in quanto la manutenzione del marciapiede sarebbe stata di competenza del condominio, proprietario del sottostante lucernario.
In ragione di detta eccezione, il tribunale riteneva la causa comune al condominio e ne ordinava la chiamata in causa. Costituitosi in giudizio, il condominio contestava la propria responsabilità adducendo che alla manutenzione avrebbe dovuto provvedere il comune essendo la piastrella parte integrante del marciapiede soggetto al pubblico transito.
Il tribunale, all’esito dell’istruttoria, rigettava le domande nei confronti di entrambi i convenuti ritenendo non agevole individuare se la custodia del marciapiede fosse comunale o condominiale.
Investita della questione, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la responsabilità solidale sia del condominio sia del comune.
Secondo gli Ermellini, invece, in virtù del principio di diritto sopraindicato, è sul condominio che incombe il dovere di custodire quel tratto di strada, in virtù della funzione di copertura svolta dal lucernario.

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Etilometro inutilizzabile se i controlli periodici sono fatti in ritardo

Etilometro inutilizzabile se i controlli periodici sono fatti in ritardo.

Per il Tribunale di Belluno il ritardo della visita periodica comporta l’inutilizzabilità dello strumento e la necessità di sottoporlo a una nuova verifica primitiva.

Sempre più spesso la giurisprudenza di merito ci dimostra che l’accertamento della guida in stato di ebbrezza tramite etilometro non sempre è eseguito come dovrebbe e con apparecchi adeguati. Tra le ultime pronunce in proposito, particolarmente interessante è la sentenza numero 288/2018 qui sotto allegata, emanata dal Tribunale di Belluno nella persona della Dottoressa Cristina Cittolin.

In tale sentenza infatti, facendo proprie le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del giudizio, il Tribunale ha innanzitutto ricordato a quali controlli devono sottostare gli etilometri utilizzati dagli agenti accertatori.

Tali apparecchi, nel dettaglio, prima di essere messi in servizio devono essere sottoposti alla visita primitiva. Successivamente, gli etilometri devono essere assoggettati a delle visite periodiche, da eseguire con cadenza annuale o dopo ogni intervento di manutenzione e riparazione.

Le date e gli esiti di tutte tali visite vanno indicati nel libretto metrologico, in maniera tale da permettere in maniera celere la verifica della loro esecuzione, della loro regolarità e della loro tempestività.

In ragione dell’esigenza di garantire l’efficienza, l’affidabilità e la precisione degli etilometri, la conseguenza del ritardo nell’esecuzione della verifica periodica, a detta del giudice di Belluno, è quella della sua irregolarità. Inoltre, in caso di verifica periodica tardiva (così come, a maggior ragione, in caso di difetto di visita periodica) l’apparecchio di misurazione del tasso alcolemico deve essere o ritirato dall’uso o sottoposto a nuova verifica primitiva, di collaudo e di messa in funzione, che è caratterizzata da un numero maggiore di prove rispetto a quello in cui si articola la visita periodica ordinaria.

Nel caso di specie, l’etilometro con il quale era stato accertato lo stato di ebbrezza dell’imputato non era stato sottoposto a verifica né nel 2003 né nel 2013 e tutte le altre visite erano avvenute con significativo ritardo.

Per tale ragione, quindi, per il giudice tale apparecchio deve essere considerato inaffidabile e i tassi alcolemici con lo stesso accertati non possono essere utilizzati. L’imputato, pertanto, non può che essere assolto perché il fatto non sussiste.

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Risarcimento danni da violazione del diritto all’istruzione del disabile

Risarcimento danni da violazione del diritto all’istruzione del disabile.

Criteri guida per chiedere e ottenere il ristoro per il disagio che i genitori subiscono a causa di omissioni della scuola nell’avviamento del sostegno per il minore con handicap.

Il diritto all’istruzione del disabile (in particolare del disabile grave) sancito dagli artt. 2, 3, 38 comma 3 Cost., costituisce un diritto fondamentale rispetto al quale il legislatore e l’amministrazione che è chiamata ad attuare le leggi non possono mai esimersi dall’apprestare quel nucleo di garanzie dovute, fino anche a giungere alla determinazione di un numero di ore di sostegno pari a quello delle ore di frequenza scolastica, nel caso di accertata situazione di gravità del disabile.

La condotta dell’Istituto scolastico consistente nel riconoscimento di un monte-ì ore settimanali di sostegno inferiore ad una data proporzione preventivamente stabilita, appare in netta violazione della Legge Quadro n. 104/92 per l’assistenza, integrazione sociale e i diritti delle persone disabili, oltre che del d. lgs. n. 297/94 recante disposizioni in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica e allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile.

I principi sopra richiamati impongono di dare una lettura sistematica a tutte le norme e disposizioni sulla tutela degli alunni disabili, nonchè a quello sull’organizzazione scolastica e sulle disponibilità degli insegnanti di sostegno, nel senso che le posizioni degli alunni disabili devono senza dubbio prevalere sulle esigenze di natura finanziaria dell’istituzione.

Come dimostrare il bisogno di assistenza continua dell’alunno? Attraverso:
1) la certificazione della Commissione medica presso la Asl, attestante la presenza di un handicap grave ai sensi della Legge n. 104/92, oltre a
2) certificazione medica che evidenza la gravità della patologia sofferta dal minore e le conseguenti necessità di sostegno, nonché
3) Piano Educativo Individualizzato, che conferma il bisogno di assistenza continua del minore durante le attività scolastiche.
Sulla base di questi elementi, va riconosciuto in favore del minore il diritto all’insegnante di sostegno per l’intero arco della giornata scolastica, con tutti i conseguenti obblighi dell’amministrazione.

Nel caso in cui l’Istituto scolastico assegni al minore un numero limitato di ore di sostegno, procedere in questo modo:
a) contestare il provvedimento amministrativo citato;
b) presentare un ricorso al Tar, nel quale si impugna il predetto provvedimento;
c) chiedere il risarcimento dei danni.

A questo punto il giudice amministrativo farà una serie di ragionamenti per arrivare a liquidare il danno, sequenze che possono essere schematizzate con questi rapidi passaggi:

d) la premessa resta sempre quella che il diritto all’istruzione del minore portatore di handicap ha rango di diritto fondamentale;
e) la mancata attivazione dell’intervento dell’insegnante di sostegno nel rapporto predeterminato 1:1, sin dall’inizio dell’anno scolastico, amplifica le difficoltà di inserimento e di partecipazione alla vita scolastica e di relazione del minore;
f) il danno va liquidato in via equitativa, con il riconoscimento di un importo per ogni mese di mancata assistenza da parte dell’amministrazione, nel corso dell’anno scolastico e fino all’avvenuta integrazione delle ore di sostegno nel rapporto 1:1 voluto dalla norma.

La preparazione di questi ricorsi presuppone che la materia dei diritti all’istruzione del minore portatore di handicap sia familiare per il difensore: ciò consente all’avvocato (e per conseguenza ai genitori del minore) di cogliere e sottolineare quelle sfumature tecnico-giuridiche che, opportunamente mostrate al magistrato, possono condurre all’accoglimento della domanda di risarcimento.

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Risarcimento danni da violazione del consenso informato

Risarcimento danni da violazione del consenso informato.

In tema di danno alla salute e responsabilità medica, i criteri di base da seguire per chiedere il risarcimento in giudizio.

La cronaca spesso ci restituisce notizie attinenti a situazioni di malasanità o presunte tali; all’interno di queste spesso si legge di circostanze nelle quali il paziente non esprime un valido consenso informato.
La domanda è dunque la seguente: se si verifica una situazione di questo tipo, ossia la persona sottoposta ad intervento non è messa in grado di esprimersi con il prescritto consenso informato, questa omissione può essere portata in causa per una richiesta di risarcimento del danno?

Se è realmente violato l’obbligo di informazione di cui parliamo, i danni non patrimoniali risarcibili sono di questa natura:

a) sono quelli conseguenti alla lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;
b) inoltre sono quelli conseguenti alla lesione del diritto all’integrità psicofisica del paziente sottoposto ad intervento (diritto tutelato dall’art. 32 Cost.).

La risarcibilità della prima categoria di danno è ammessa anche se non si verifica una lesione alla salute o se questa non sia casualmente correlata alla lesione di quel diritto (ad esempio in quanto l’intervento o la terapia sono stati scelti ed eseguiti correttamente), ovviamente devono provenire dalla violazione del diritto all’autodeterminazione in se considerato (altro esempio: la sofferenza che deriva al paziente dal verificarsi di conseguenze inaspettate in quanto non illustrate anzitempo).

Il discorso è un po diverso per la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le prevedibili conseguente dell’atto terapeutico necessario e ben eseguito, ma effettuato senza l’informazione a monte del paziente sottoposto ad intervento.

Ebbene, l’ipotetica risarcibilità presuppone che il paziente avrebbe rifiutato quello specifico intervento se fosse stato informato adeguatamente: si tratta di una circostanza che va accertata in causa.

A questo proposito, va detto che l’onere probatorio grava sul paziente e può essere soddisfatto anche mediante presunzioni.
Le ragioni processuali e sostanziali per le quali tale onere grava sul paziente sono quattro:

1) la prova del nesso causale tra inadempimento e danno compete alla parte che allega l’inadempimento e rivendica il risarcimento,
2) il fatto da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto al medico,
3) si tratta di stabilire dove si sarebbe orientata la scelta del paziente,
4) va misurato lo scostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico.

Il danno da violazione del consenso informato nell’ambito della responsabilità sanitaria è solo un aspetto della più generale categoria dei danni risarcibili prodotti dalla maldestra attività medica.
La rivendicazione di questa voce di danno, in caso di silenzio (o di contestazione sull’an) della struttura sanitaria sulle richieste stragiudiziali di risarcimento da parte della vittima o dei propri congiunti, passa inevitabilmente per la strada giudiziale.

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Arresto in flagranza: quando può farlo il privato cittadino

Arresto in flagranza: quando può farlo il privato cittadino.

La Cassazione si esprime sulla legittimità dell’arresto in flagranza da parte di un privato cittadino.

Quando il cittadino può arrestare il delinquente? L’art. 383 del codice di procedura penale consente l’arresto facoltativo da parte del privato in flagranza di reato, per i delitti perseguibili d’ufficio e nei casi previsti dall’art. 380. Inoltre, dispone che la persona che ha eseguito l’arresto deve “senza ritardo” consegnare l’arrestato e le cose costituenti il corpo del reato alla polizia giudiziaria che redige il verbale della consegna e ne rilascia copia.

Sul punto, si è espressa di recente anche la Cassazione, con la sentenza n. 23901/2018, legittimando l’arresto effettuato da un privato cittadino nei confronti di un rapinatore.

La vicenda vede il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Savona adire il Palazzaccio avverso l’ordinanza con cui il giudice monocratico del Tribunale di Savona non convalidava l’arresto di un uomo accusato del reato di rapina e lesioni aggravate. Il procuratore lamentava violazione di legge sul rilievo che il giudice aveva erroneamente escluso lo stato di flagranza ovvero di quasi flagranza di cui all’art.382 cod. proc. pen.

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

Invero, va escluso, che, nel caso di specie, ci si trovi dinanzi ad un’ipotesi in cui il privato non abbia proceduto all’arresto ma si sia limitato ad invitare il presunto reo ad attendere l’arrivo degli organi di polizia, in quanto nei verbali agli atti si fa espresso riferimento ad un intervento con cui si adoperava per far cessare la presunta rapina, mentre altri si assicuravano che l’aggressore rimanesse sul posto sino all’arrivo della P.G. A ciò va aggiunto che, sempre secondo quanto descritto in atti, sussistevano ex ante gli elementi fattuali da cui poteva ragionevolmente desumersi la commissione, ai danni della vittima, del delitto di rapina e, dunque, legittimarsi, ai sensi dell’art. 383 cod. proc. pen., l’arresto facoltativo del privato, “in quanto l’esclusione del fine di profitto non poteva ricavarsi in quel momento né dal movente riferito (l’accusa alla vittima di un precedente alterco con un amico dell’aggressore), né dal fatto che nessuna collanina – era – stata rinvenuta indosso all’imputato, considerato che una delle due collane della p.o. risulta effettivamente sparita e la seconda è stata recuperata spezzata”. Né vale richiamare la circostanza che lo strappo della collanina fu accidentale, giacchè fatto conseguente ad una successiva valutazione di merito operata dal giudice, “ma non rapportabile a quanto direttamente percepibile al momento dell’arresto, dovendosi, ai fini della convalida, avere riguardo alle circostanze esistenti al momento dell’intervento del privato, secondo una valutazione da compiersi ex ante, da tenersi distinta da quella del giudizio di merito”. Per cui l’ordinanza di non convalida va annullata senza rinvio e l’arresto del privato dichiarato legittimo.

fonte: http://www.studiocataldi.it/

Rapporti intimi filmati: non è reato

Rapporti intimi filmati: non è reato.

Per la Cassazione non è integrato il reato di interferenze illecite nella casa privata a carico di chi filma un rapporto intimo all’insaputa del partner.

La V sezione della Corte di Cassazione con sentenza 27160 del 13 giugno 2018 esclude il reato di interferenze illecite nella casa privata nella fattispecie in cui uno dei soggetti filma un rapporto intimo all’insaputa dell’altro.

Un uomo invitava la propria ex compagna presso il suo appartamento al fine di intrattenere con lei un rapporto intimo per poi ricattarla con il video clandestinamente filmato.

Interferenze illecite nella vita privata

Nella sentenza de qua gli Ermellini di Piazza Cavour, con osservanza di granitici orientamenti della giurisprudenza di legittimità, nello specifico la sentenza 22221 del 10 gennaio 2017, nonché la pronuncia di ben dieci anni prima sempre emessa dalla V Sezione, ossia la sentenza 1766 del 28 novembre 2007, hanno statuito che “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata la condotta di colui che mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva provveda a filmare in casa propria rapporti intimi intrattenuti con la convivente, in quanto l’interferenza illecita prevista e sanzionata dal predetto articolo è quella proveniente dal terzo estraneo alla vita privata, e non già quella del soggetto che, invece, sia ammesso a farne parte, sia pure estemporaneamente, mentre è irrilevante l’oggetto della ripresa, considerato che il concetto di “vita privata” si riferisce a qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riservato”.

Tale orientamento pone la sua attenzione sull’inciso “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata la condotta di colui che mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva provveda a filmare in casa propria rapporti intimi intrattenuti con la convivente”, in quanto l’interferenza illecita prevista e sanzionata dal predetto articolo è quella proveniente dal terzo estraneo alla vita privata, e non già quella del soggetto che, invece, sia ammesso a farne parte, sia pure estemporaneamente, mentre è irrilevante l’oggetto della ripresa, considerato che il concetto di ‘vita privata’ si riferisce a qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riservato.

Una particolare attenzione deve essere rivolta all’inciso vita privata riconducibile quindi a quella indicata dal Legislatore nell’articolo 614 del Codice Penale, quindi nel domicilio o nelle sue appartenenze, mostrando perciò l’esclusione del delitto ai sensi dell’articolo 615 bis Codice penale di colui che non ha diritto ad introdursi nei luoghi sopraindicati; per completezza di esposizione nell’articolo 614 del Codice Penale Violazione di domicilio il soggetto agente è chiunque e non l’avente diritto di stare fisicamente nei luoghi indicati. Inoltre i Supremi Giudici asseriscono che “nè può fondatamente ritenersi che la ripresa fosse indebita per il solo fatto che non fosse stata autorizzata dall’altro partecipe a quel particolare segmento della vita privata, poichè la norma, come si è detto, ricollega il disvalore, di rilievo penale, della registrazione alla violazione dell’intimità del domicilio e non alla mera assenza del consenso da parte di chi viene ripreso”.

Per questi motivi la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e annulla senza rinvio agli effetti civili la sentenza impugnata quanto al capo I perchè il fatto non sussiste ed elimina la somma di Euro 500 dalla quantificazione del danno rigettando il ricorso nel resto; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 1.200, oltre accessori di legge, in favore della parte civile P., da distrarsi in favore dell’erario.

Sostanzialmente il reato di cui all’articolo 615-bis del Codice Penale viene meno in quanto il soggetto agente e la persona offesa sono soggetti che frequentano abitualmente il luogo dove è avvenuta il filmato e non rientrano nel chiunque riconducibile all’articolo 614 del Codice Penale.

fonte: http://www.studiocataldi.it/