P.A.: gratis l’accesso agli atti pubblici per tutti

P.A.: gratis l’accesso agli atti pubblici per tutti
Via libera del Governo al primo decreto della riforma Madia. Il Foia è legge

innovazione-pubblica-ammonistrazioneÈ arrivato ieri l’ok definitivo del Governo al primo degli 11 decreti attuativi della riforma Madia sul “Foia”, il “Freedom of information act” che dà diritto all’accesso agli atti amministrativi a tutti i cittadini gratuitamente.

Con la riforma arrivata ieri al traguardo, la P.A. si mette in vetrina, “diventa una casa di vetro” ha rilanciato il sottosegretario alla pubblica amministrazione e innovazione Angelo Rughetti, con un cambiamento di “modello”, ispirato a quello dei paesi anglosassoni e improntato alla totale trasparenza su tutti gli atti pubblici verso i quali cittadini e imprese hanno “un interesse diretto, concreto e attuale”.

Il diritto di conoscere atti e informazioni (dalle procedure di valutazione usate in un appalto ai concorsi, dai finanziamenti del Comune ai tempi di smaltimento delle pratiche, ecc.), in sostanza, diventa la regola, indipendentemente dal fatto che si rientri o meno nella platea dei concorrenti, come riconosciuto sino a ieri dalla legge (cioè in presenza di un diritto soggettivo o interesse legittimo), mentre la mancata diffusione dei provvedimenti rappresenterà l’eccezione, che dovrà essere motivata dalla garanzia di interessi ben precisi, come il segreto di Stato o la privacy o ancora le tutele commerciali.

Ma non solo. Non sempre il cittadino dovrà chiedere, perché il provvedimento approvato rilancia l’obbligo “automatico” di pubblicazione: le P.A. saranno tenute, ad esempio, a mettere online i pagamenti effettuati per consentire di tenere sotto il controllo i debiti nei confronti dei fornitori; gli enti locali e le regioni dovranno pubblicare i dati dei titolari degli incarichi dirigenziali (ivi comprese le indennità erogate); la sanità dovrà rendere pubblici i criteri di formazione delle liste di attesa, ecc.

Passare dalla teoria alla realizzazione pratica non sarà semplice, cosa dimostrata dallo stesso percorso tortuoso affrontato dal decreto attuativo sino ad arrivare al via libera finale, ma resta il fatto che le prime “barriere” alla libera informazione sono state abbattute.

Ecco, in pillole, tutte le novità:
Diritto di accesso sempre garantito

Il diritto dei cittadini di conoscere atti e informazioni pubblici diventa la regola. A rappresentare l’eccezione sarà invece la mancata diffusione dei provvedimenti e dovrà essere obbligatoriamente motivata, sulla base di tutele precise. La P.A. che negherà i documenti e i dati richiesti dovrà dimostrare, infatti, che la risposta potrebbe pregiudicare in modo “concreto”, gli interessi dello Stato (dalla sicurezza nazionale alla stabilità economica, ecc.) e quelli dei privati (dati personali, segretezza corrispondenza, ecc.).

Obbligo automatico di pubblicazione

A prescindere dalla richiesta dei cittadini, la P.A. avrà obblighi di trasparenza automatici dovendo mettere online tutta una serie di informazioni. Tra queste rilevano i pagamenti effettuati, in forma puntuale e aggregata, la pubblicazione da parte dei titolari di incarichi dirigenziali dei dati che oggi devono fornire i politici (indennità, situazione patrimoniale, ecc.).

La domanda

Cittadini e imprese che vogliono conoscere un’informazione o accedere a un atto o a un documento potranno rivolgersi a tre uffici: ovvero, a quello che dispone del materiale richiesto (laddove conosciuto); all’ufficio relazioni con il pubblico; a una terza struttura che dovrà essere indicata su internet dalla P.A. interessata.

In caso di negazione della richiesta da parte dell’ufficio pubblico, non ci sarà bisogno di adire la giustizia amministrativa. In luogo del più lungo e costoso ricorso davanti al Tar, ci si potrà appellare al responsabile anti-corruzione o al difensore civico (negli enti locali).

Risposte entro 30 giorni

A cadere nel provvedimento approvato è anche la barriera del silenzio-rifiuto. La P.A. infatti dovrà rispondere entro 30 giorni (dalla ricezione dell’istanza del cittadino) fornendo i dati richiesti oppure motivando espressamente la decisione contraria.

I tempi, tuttavia, si allungano per l’eventuale tutela dei “controinteressati”. Se l’ufficio pubblico infatti individua i titolari di dati (personali o commerciali) che potrebbero rimanere danneggiati dalla pubblicazione delle informazioni, questi avranno 10 giorni di tempo per opporsi e il termine dei 30 giorni si blocca.

Niente costi

La regola generale prevista dalla riforma è che tutti gli atti e le informazioni richieste da cittadini e imprese dovranno essere forniti dalla Pubblica Amministrazione in forma gratuita, soprattutto se l’invio è telematico. In caso di documenti rilasciati su “supporti materiali” potranno essere richiesti soltanto i rimborsi dei costi “effettivamente sostenuti e documentati”.

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Avvocati: assicurazione, obbligo “congelato”

Avvocati: assicurazione, obbligo “congelato”
Uno dei 6 requisiti per rimanere iscritti all’albo in vigore dal 22 aprile non è ancora operativo, in attesa del decreto ad hoc

Non c’è ancora nessun obbligo di assicurarsi per rimanere iscritti nell’albo degli avvocati. Nonostante, infatti, il regolamento del ministero della giustizia (n. 47/2016) che fissa le regole per l’accertamento dell’esercizio della professione “in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente” approdato in GU nei giorni scorsi preveda espressamente tra i 6 requisiti necessari, anche quello di aver stipulato una polizza assicurativa ex art. 12 della l. n. 247/2012, manca ancora il decreto ad hoc di via Arenula.

La legge professionale forense stabilisce, infatti, all’art. 12, comma 5, che il ministero dovrà determinare, con apposito decreto, le condizioni essenziali della polizza, nonché dei massimali minimi di polizza”.

Per cui, come già affermato in tal senso dal Cnf con parere n. 35/2015 tale obbligo, pur entrando formalmente in vigore il 22 aprile prossimo, è da intendersi differito, nell’attesa del provvedimento ministeriale.

Attesa che, peraltro, non dovrebbe durare a lungo, visto che il provvedimento risulta già messo a punto dal ministero e non appena varato seguirà un iter più rapido rispetto agli altri, non prevedendo tutti i pareri indicati dall’art. 1 della legge forense.

L’obbligo assicurativo, come sottolineato dallo stesso Cnf, si ricorda, prevede due diverse fattispecie: la prima relativa alla stipula di “una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione compresa quella per la custodia di documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti”; la seconda, riguardante l’obbligo di stipulare “una ulteriore polizza assicurativa a copertura degli infortuni derivanti a sé e ai propri collaboratori, dipendenti e praticanti in conseguenza dell’attività svolta nell’esercizio della professione anche fuori dei locali dello studio legale, anche in qualità di sostituto o di collaboratore esterno occasionale”.

Avvocati: addio alle specializzazioni

Avvocati: addio alle specializzazioni
Il Tar del Lazio boccia il regolamento e accoglie i ricorsi presentati dall’Oua, dall’Anf e dai Consigli dell’Ordine

img144Una vera disfatta per le specializzazioni forensi che ieri sono state bocciate dal Tar Lazio (con le sentenze nn. 4424/2016, 4426/2016, 4428/2016) in accoglimento parziale dei ricorsi presentati dall’Oua, dall’Anf e da alcuni Consigli dell’Ordine.

Questione centrale nelle decisioni del giudice amministrativo, sulla quale si erano concentrate da subito le polemiche, è la previsione delle 18 materie di specializzazione, nei confronti delle quali il Tar va giù con mano pesante sottolineando come “né dalla mera lettura dell’elenco, né dalla relazione illustrativa del Ministero – è dato cogliere – quale sia il principio logico che ha presieduto alla scelta”. Ed infatti, si osserva in sentenza “non risulta rispettato né un criterio codicistico, né un criterio di riferimento alle competenze dei vari organi giurisdizionali esistenti nell’ordinamento, né infine un criterio di coincidenza con i possibili insegnamenti universitari, più numerosi di quelli individuati dal decreto”. Un elenco incompleto peraltro già rilevato dal Consiglio di Stato che si era pronunciato in sede consultiva sullo schema di regolamento, con rilievi ai quali il ministero si è adeguato solo parzialmente, senza “un unitario filo logico di selezione”.
Da qui, “considerata la delicatezza della disciplina posta e la necessaria funzionalizzazione della normazione secondaria alla perseguita finalità di rendere il mercato delle prestazioni legali più leggibile per i consumatori”, deriva l’impossibilità di condividere la tesi della difesa, secondo la quale la censura impingerebbe in una valutazione di merito riservata all’amministrazione, poiché anche le valutazioni e le scelte rimesse all’attività regolamentare “non possono sottrarsi al rispetto dei principi di intrinseca ragionevolezza e di adeguatezza rispetto allo scopo perseguito”.

Oltre all’annullamento dell’art. 3, altro punto censurato dal consesso amministrativo è la necessità dello svolgimento di un colloquio davanti al Consiglio nazionale forense da parte di chi intende ottenere il titolo di specialista contando sulla precedente esperienza, ex art. 6 del regolamento.

L’assenza di specificazioni e di definizioni puntuali è tale, a detta del Tar, “da conferire al Consiglio nazionale forense una latissima discrezionalità operativa, che, oltre ad essere foriera di confusione interpretativa e distorsioni applicative (con ricadute anche in punto di concorrenza tra gli avvocati), si pone in assoluta contraddizione con la funzione stessa del regolamento in esame, che, ai sensi dell’art. 9 della legge, è quella di individuare un procedimento di conferimento definito in maniera precisa e dettagliata, a tutela dei consumatori utenti e degli stessi professionisti che intendano conseguire il titolo”.

Ad uscire indenni invece dalla mannaia amministrativa, gli altri punti contestati, come la previsione di un numero di materie oggetto di specializzazione, la necessità di un minimum di incarichi annui nella specifica materia e, più in generale, il potere regolatorio da parte del ministero e l’attribuzione di competenze al Cnf.

Rimane comunque la ferma censura di elementi importanti che obbliga ora il ministero a procedere con una riscrittura del regolamento, salvo l’ipotesi di eventuali ricorsi, scoraggiati però dal richiamo del Tar alle originarie osservazioni formulate nello stesso senso da parte del Consiglio di Stato.

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Rumori: il condomino ha diritto di sapere quanto è rumoroso il climatizzatore del vicino

Rumori: il condomino ha diritto di sapere quanto è rumoroso il climatizzatore del vicino
Per il Tar del Lazio si tratta di un’informazione ambientale garantita dal d.lgs. n. 195/2005

come-richiedere-le-detrazioni-fiscali-per-lavori-in-condominio_9078ce84eebffd916ae1f8b0ce088037Se nel condominio c’è un impianto di condizionamento dell’aria rumoroso, il singolo condomino ha diritto a sapere a quanto ammontano le immissioni sonore che questo produce. Nel fare ciò, deve rivolgersi all’Agenzia regionale che tutela l’ecosistema.
Per il Tar del Lazio, secondo quanto esposto con la sentenza numero 4018/2016 depositata il 4 aprile scorso, quella sopra individuata è un’informazione ambientale che, come tale, trova garanzia nel decreto legislativo numero 195/2005 con il quale l’Italia ha recepito la direttiva dell’Unione Europea in materia.

Non si rimane, insomma, all’interno dei più stretti confini della normativa sulla trasparenza contenuta nella legge numero 241 del 1990: il diritto di scoprire quanti decibel produce l’impianto va tutelato pienamente.

Non importa che il climatizzatore abbia carattere privato e sia al servizio solo di alcuni negozi: l’autorità pubblica deve rendere nota l’informazione ambientale a chiunque ne faccia richiesta, indipendentemente dalla dimostrazione di un interesse.

Se poi si considera che nel caso di specie il richiedente, vivendo nello stabile nel quale si trovava l’impianto, aveva addirittura un evidente interesse qualificato, nulla gli potrebbe impedire di scoprire i decibel. Peraltro le rilevazioni Arpa erano state compiute proprio nel suo appartamento.

Insomma: la richiesta di avere maggiori informazioni sui rumori presenti in condominio è tutt’altro che irragionevole e il condomino ha diritto di ottenere risposta.

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Pensioni: al via il part-time agevolato

Pensioni: al via il part-time agevolato
Il ministro ha firmato il decreto attuativo. Ecco come funziona

Via libera al part-time agevolato che consente ai lavoratori prossimi alla pensione di uscire dal lavoro con orari ridotti ma con il diritto al trattamento previdenziale integrale. E’ stato firmato ieri infatti dal ministro del lavoro, di concerto con quello dell’economia, il decreto attuativo della misura introdotta dalla legge di stabilità 2016, estesa anche ai lavoratori pubblici dal Milleproroghe (l. n. 21/2016 di conversione del dl n. 210/2015), ma fruibile per ora esclusivamente dai lavoratori del settore privato con contratto a tempo indeterminato full-time, in possesso dei requisiti contributivi minimi che maturano l’età per la pensione di vecchiaia entro il 31 dicembre 2018.

Il decreto è stato trasmesso ora alla Corte dei Conti e diventerà subito operativo non appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Le nuove regole:

Orario di lavoro ridotto tra il 40% e il 60%
La misura introdotta dalla legge di Stabilità a favore del settore privato (e successivamente estesa al settore pubblico) consente al lavvoratore di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno e indeterminato a part-time a tempo determinato con scadenza fissata al compimento dell’età per la pensione di vecchiaia. Il part-time agevolato consentirà di ridurre l’orario di lavoro tra il 40% e il 60% ricevendo un premio cash direttamente in busta paga, pari all’importo dei contributi non versati dal datore di lavoro all’Imps.

I beneficiari
Possono avvalersi della misura che consente l’usicta graduale dall’attività lavorativa i dipendenti già in possesso del requisito contributivo che raggiungono l’età per la pensione di vecchiaia entro il 31 dicembre 2018, ossia, con 20 anni di contributi, 66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 anni e 7 mesi per le donne (negli anni 2016 e 2017).

Come si accede al beneficio?
Il lavoratore interessato deve richiedere all’Inps (per via telematica laddove in possesso del Pin ovvero rivolgendosi a un patronato o allo sportello dell’istituto) la certificazione attestante il possesso del requisiito contributo e la maturazione di quello anagrafico entro il 31 dicembre del 2018.

Una volta ottenuta la certificazione Inps, il lavoratore e il datore concordano, stipulando un contratto di lavoro a tempo parziale agevolato, la misura della riduzione di orario. Il datore trasmette quindi alla direzione territoriale del lavoro competente per territorio l’accordo raggiunto affinché la medesima rilasci entro 5 giorni lavorativi, il provvedimento di autorizzazione di accesso al beneficio.

Acquisito il provvedimento il datore di lavoro trasmette istanza telematica all’Inps che dovrà comunicarne l’accoglimento o il rigetto entro 5 giorni.

La durata
La durata dell’accordo stipulato tra datore e lavoratore è pari al periodo intercorrente tra la data di accesso al beneficio e quella di maturazione, da parte del lavoratore stesso, dell’età per il diritto alla pensione di vecchiaia.

Gli effetti del contratto decorrono dal primo giorno del periodo di paga mensile successivo a quello di accoglimento, da parte dell’Inps, dell’istanza.

I contributi
Per il periodo di riduzione della prestazione lavorativa, viene riconosciuta al lavoratore la contribuzione figurativa corrispondente alla prestazione non effettuata, in modo che al momento in cui matura l’età pensionabile possa percepire l’intero importo della pensione senza alcuna penalità.

La somma erogata mensilmente dal datore di lavoro (corrispondente ai contributi previdenziali sull’orario non lavorato), inoltre, chiarisce il decreto, è onnicomprensiva, non concorre alla formazione del reddito e non è assoggettata ad alcuna forma di contribuzione ivi inclusa quella relativa all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

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Avvocati mediatori: il TAR annulla le incompatibilità

Avvocati mediatori: il TAR annulla le incompatibilità.

Illegittima per “straripamento di potere” la normativa ministeriale su incompatibilità e conflitto di interessi dei mediatori.

Va annullata poichè illegittima la normativa con cui il ministero della Giustizia ha introdotto e disciplinato una serie di incompatibilità e conflitti di interessi della categoria dei mediatori.

Lo ha disposto il Tar Lazio di Roma, sezione prima, nella sentenza n. 3989/2016, Presidente Volpe, Estensore Correale.

Il ricorso è avanzato dal Coordinamento della Conciliazione Forense che riunisce avvocati mediatori ovvero associazioni forensi operanti nel campo della mediazione, contro il Decreto del Ministro della Giustizia del 4.08.2014 n. 139, che ha inserito l’art. 14-bis nel Decreto del Ministro della Giustizia del 18.10.2010 n. 180.

Sostanzialmente, nella disciplina della mediazione civile e commerciale, il Ministero ha introdotto una variegata serie di incompatibilità con effetto di incidere sulla categoria degli avvocati-mediatori.

I ricorrenti lamentano che il Governo abbia dato luogo a “straripamento di potere”, agendo in carenza di specifica delega legislativa, dato che lo stesso “decreto delegato” n. 28/2010 aveva provveduto ad attenersi alle indicazioni della “legge delega” in ordine alle garanzie di imparzialità del procedimento di mediazione e aveva dato luogo, sul punto, ad una riserva di regolamento in favore dei singoli Organismi di mediazione, con un meccanismo perfettamente in linea con il sistema di risoluzione alternativo delle controversie, principalmente basato sulla centralità delle parti e sulla volontarietà delle scelte che le stesse possono effettuare all’interno del procedimento in questione.

Il Tribunale ritiene che la doglianza attorea meriti accoglimento, e osserva che il regolamento dell’organismo scelto dalle parti assume un ruolo centrale nell’assetto della procedura: ciò appare del tutto in linea con la volontà del legislatore “delegante” di dare rilievo alla struttura di mediazione in sé considerata più che ai singoli componenti.

La “centralità” riconosciuta all’organismo, proseguono i giudici, è rafforzata dalla previsione dell’art. 8 d.lgs. cit. (come modificato dal d.l. n. 69/2013, conv. in l. n. 98/2013), secondo la quale è il responsabile dell’organismo a designare un mediatore e fissare un primo incontro tra le parti e non sono le parti a “scegliersi” il singolo mediatore (a differenza di quel che accade, ad esempio, per l’arbitrato).

Quindi, il legislatore ha considerato modalità idonee a garantire l’imparzialità e terzietà del mediatore, rinviando alla relativa regolamentazione ad opera del singolo organismo di mediazione – a sua volta vigilato dal Ministero della Giustizia – e alla dichiarazione di impegno alla sua osservanza che ogni mediatore dove sottoscrivere per ciascun affare.

In materia, lo spazio lasciato alla decretazione ministeriale appare assai limitato e, quindi, emerge un quadro dotato di evidente chiarezza, da cui si evince che in materia di garanzie di imparzialità è demandato a provvedere con il proprio codice etico lo stesso organismo di mediazione, soggetto su cui è centrata l’attenzione al fine di regolamentare l’intera procedura fermo restando il potere del Ministero della Giustizia di vigilare in ogni momento.

La peculiare figura dell’avvocato-mediatore, proseguono i giudici, è emersa peraltro a seguito della riforma del settembre 2013 (d.l. n. 69/13, conv. in l. n. 98/13, “decreto del fare”) che ha inserito nel testo dell’art. 16 del d.lgs. n. 20/2010 il comma 4 bis, secondo il quale “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori”.
Il richiamo alla qualifica assunta “di diritto”, secondo la norma primaria come innovata, ad avviso del Collegio evidenzia la peculiarità della figura dell’avvocato-mediatore, che dà luogo ad una inscindibilità di posizione laddove un avvocato scelga di dedicarsi (anche) alla mediazione.

Il decreto ministeriale in esame non ha tenuto conto della peculiare disciplina che regola la professione forense e allo specifico codice deontologico (il cui art. 62 prevede esplicitamente la regolamentazione della funzione di mediatore per colui che è avvocato) e neppure, proseguono i giudici del TAR, è stata colta appieno l’estrema, variegata composizione degli studi legali professionali sparsi sul territorio e ilrapporto numerico con gli organismi di mediazione in ciascun distretto.

Con l’introduzione dell’esteso e generalizzato regime di incompatibilità di cui all’art. 14 bis d.m. n. 139/14, senza specifica “copertura legislativa”, si è invece dato luogo ad una commistione di incompatibilità e conflitti di interessi cui devono sottostare gli “avvocati-mediatori” che non aveva ragione di essere e che meritava, eventualmente, pari sede legislativa primaria.

Alla luce di quanto illustrato, quindi, il ricorso deve trovare accoglimento, comportando l’espunzione dell’intero art. 14 bis dal testo del d.m. n. 180/2010.
La fondatezza del ricorso introduttivo comporta, poi, anche l’annullamento dell’impugnata circolare ministeriale di cui ai motivi aggiunti, per illegittimità derivata.

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Appalti: non occorre dichiarare le condanne subite per fattispecie depenalizzate

Appalti: non occorre dichiarare le condanne subite per fattispecie depenalizzate.
Il T.A.R. Veneto, con la sentenza n. 161, resa dalla Prima Sezione mediante il depositato avvenuto il 15/02/2016, ha respinto il ricorso, proposto dalla seconda classificata ad una gara per l’affidamento in concessione della gestione di tre residenze sanitarie, con la quale si mirava a far dichiarare l’illegittimità dell’aggiudicazione disposta a favore di una società a causa del fatto che il rappresentante legale di quest’ultima non avesse dichiarato, nei moduli all’uopo predisposti, di aver subito ben cinque condanne penali passate in giudicato.
L’assunto della ricorrente era basato sulla circostanza che, così facendo, la stazione appaltante non si era resa conto che aver ammesso alla procedura quel concorrente aveva costituito una violazione dell’art. 38, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 163/2006, atteso che questa norma impedisce la partecipazione a quei soggetti che non possono garantire la c.d. “moralità professionale” in quanto destinatari di condanna passata in giudicato per fattispecie costituenti “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità”.
Premesso che dal testo della decisione in commento non si evince quali siano state le condotte che hanno comportato le condanne in questione, e che quindi non è possibile arguire se quei reati potessero effettivamente ritenersi compresi nel novero di quelli che sono idonei ad inficiare la moralità professionale (anche se, per quanto si dirà in prosieguo, è presumibile sostenere che le condotte sanzionate non fossero né gravi né rilevanti sotto il profilo della tipologia dei reati commessi e che pertanto non sarebbero state causa di esclusione dell’impresa di cui il responsabile era rappresentante legale) ciò che rileva è che i Giudici veneziani hanno esaminato la questione mettendo in evidenza come la P.A. affidante abbia applicato la medesima disposizione legislativa, che la ricorrente riteneva essere stata violata, avuto riguardo a quanto prescrive in ordine al fatto che “l’esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima”.
Aggiungasi che il secondo comma dell’art. 38 medesimo specifica, soffermandosi in particolare sulla compilazione dei documenti da presentare con l’offerta, che “il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione”.
Ed infatti il T.A.R. Veneto ha rimarcato che tre delle cinque condanne passate in giudicato fossero state comminate proprio per reati oramai depenalizzati e che le restanti due fossero riconducibili in realtà ad un decreto penale di condanna non solo non ancora irrevocabile bensì non conoscibile dalla concorrente poiché tale provvedimento mai gli era stato notificato, senza trascurare la circostanza che il certificato del casellario giudiziale, richiesto dalla controinteressata e prodotto in sede di gara, nulla riportava sul punto.
Ne è derivato che le doglianze della seconda classificata non sono state considerate meritevoli di accoglimento, posto che non vi erano dubbi sulla bontà dell’operato dell’Azienda sanitaria indicente la procedura di selezione.
In giurisprudenza si è affermato più volte che la mancata menzione delle condanne subite per fattispecie di reato poi depenalizzate non è suscettibile di intaccare la moralità professionale, ragion per cui il concorrente che ha omesso le relative dichiarazioni non può essere sanzionato con l’espulsione dalla procedura: ad esempio ““Nell’ipotesi di partecipazione a gare d’appalto, nei casi di condanne per reati estinti o depenalizzati la omissione dichiarativa non incide sulla tematica della completezza della dichiarazione in funzione dell’esercizio della discrezionalità amministrativa sulla gravità della condanna e della sua rilevanza o meno ai fini partecipativi; è il fatto stesso della condanna ad essere divenuto, per effetto di una valutazione operata a monte dal legislatore, tamquam non esset, e tanto sia agli effetti penali, sia agli effetti extrapenali, in relazione a quelle fattispecie normative – come l’art. 38 del Codice dei contratti pubblici – in cui la condanna penale è assunta ad elemento paradigmatico di una possibile pericolosità o quantomeno inaffidabilità morale del soggetto che ne sia stato colpito” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 3/09/2013, n. 4392)”” (T.A.R. Salerno, Sez. I, sent. n. 8 del 13/01/2016); nello stesso senso si vedano altresì T.A.R. Roma, Sez. III Ter, sent. n. 12980 del 16/11/2015; T.A.R. Catanzaro, Sez. I, sent. n. 1243 del 24/07/2015; T.A.R. Bari, Sez. I, sent. n. 387 del 05/03/2015; T.A.R. Sardegna, Sez. I, sent. n. 337 del 13/02/2015.
La portata precettiva dell’art. 38, commi 1, lett. c) e 2 dell’art. 38 del Codice dei Contratti Pubblici, del resto, appare sufficientemente chiara: impedire che un concorrente possa venire espulso da una procedura ad evidenza pubblica nell’ipotesi in cui lo stesso non abbia dichiarato che i soggetti menzionati dalla medesima disposizione legislativa abbiano subito delle condanne per reati che siano stati successivamente oggetto di depenalizzazione.
Una simile impostazione, almeno a parere di chi scrive, è condivisibile: sarebbe infatti incongruo sostenere da un lato la necessità di evitare che possano divenire contraenti con le PP.AA. soggetti dichiarati responsabili di reati gravi e, dall’altro, imporre agli offerenti, sotto pena di esclusione, di indicare le condanne subite per fattispecie che, in quanto depenalizzate, lo stesso Legislatore, evidentemente, non ritiene essere più (ammesso che lo fossero state in precedenza) connotate dal requisito della gravità.
Tutto ciò comporta che, come nel caso deciso dal T.A.R. Veneto con la sentenza in rassegna, nessuna conseguenza negativa può subire il concorrente che omette di dichiarare le condanne penali subite qualora quella fattispecie sia stata poi depenalizzata.

fonte: http://www.altalex.com/

Abusi edilizi: l’ordine di demolizione non si prescrive mai

Abusi edilizi: l’ordine di demolizione non si prescrive mai.

Non importa che sia disposta dal giudice penale: essa ha comunque natura di sanzione amministrativa volta a ripristinare il bene giuridico leso.

I protagonisti di un abuso edilizio non potranno mai dormire sonni tranquilli.

La Corte di cassazione, infatti, è stata chiara: l’ordine di demolizione non è idoneo a cadere in prescrizione.

Più nel dettaglio, i giudici, con la sentenza numero 9949/2016 depositata il 10 marzo, hanno sancito che non importa che la demolizione di un manufatto abusivo sia disposta dal giudice penale: essa ha comunque natura di sanzione amministrativa, volta a ripristinare il bene giuridico che è stato leso.

Tale sanzione non è idonea ad essere ricondotta tre le “pene” come intese dalla Corte Edu e, di conseguenza, non è soggetta alla prescrizione di cui all’articolo 173 del codice penale. Basta pensare che essa si configura come un obbligo di fare che non ha finalità punitive ma è imposta per ragioni di tutela del territorio. Inoltre ha carattere reale, in quanto produce effetti su chi sia in rapporto diretto con il bene, indipendentemente dal fatto che egli sia stato l’effettivo autore dell’abuso.

Su tali presupposti, la terza sezione penale della Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da un cittadino al quale era stato intimato di demolire una costruzione indebitamente trasformata da uso agricolo a uso abitativo.

Oltretutto, anche a voler accedere alla tesi prospettata dal ricorrente (secondo la quale l’ordine di demolizione non sarebbe una sanzione amministrativa ma una vera e propria pena) le sue doglianze non risultavano comunque meritevoli di accoglimento, dato che nei fatti non era neppure trascorso il termine quinquennale di prescrizione delle pene principali.

fonte: http://www.studiocataldi.it/

L’ISEE 2016 non conterrà le indennità disabili. Ecco la sentenza del Consiglio di Stato

L’ISEE 2016 non conterrà le indennità disabili. Ecco la sentenza del Consiglio di Stato

L’ISEE 2016 non conterrà le indennità disabili. In altre parole il reddito familiare non subirà alcun aumento per effetto del percepimento dell’indennità disabile. Pericolo scongiurato quindi? Per ora pare di si.

Ecco i punti principali della sentenza con cui il Consiglio di Stato ha escluso la possibilità di includere le indennità disabili nel calcolo dell’ISEE 2016.

Il Consiglio di Stato ha dato ragione alle famiglie italiane nella disputa modello ISEE 2016 e indennità disabili. Si ricorda, a questo proposito, come si sia insistentemente parlato nelle scorse settimane della possibilità di introdurre le indennità disabili nel calcolo del modello ISEE 2016.
Ciò avrebbe evidentemente innalzato il reddito familiare equivalente derivante, con la pesante conseguenza di danneggiare le famiglie che percepiscono indennità per disabili nell’accesso agevolato ai servizi pubblici essenziali (istruzione, sanità, trasporti pubblici locali, ecc).

Ecco cosa scrivono i giudici del Consiglio di Stato per motivare l’irrazionalità dell’inclusione delle indennità disabili nel calcolo del modello ISEE 2016: “le indennità di accompagnamento e tutte le forme risarcitorie servono a non remunerare alcunché né certo all’accumulo del patrimonio personale, bensì a compensare un’oggettiva…situazione di inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzioni di capacità reddituale”.

Di conseguenza, nessun modello ISEE potrà mai includere indennità o altri benefici riconosciuti dallo Stato alle famiglie che al loro interno hanno soggetti con disabilità.
Inserire le indennità disabili nel modello ISEE violerebbe quindi l’articolo 3 della Costituzione.

La reazione del Governo non si è fatta attendere. Per il ministro del Lavoro Poletti “il Governo non può che prendere atto della sentenza e provvedere ad agire in coerenza con questa decisione”.

fonte: https://www.forexinfo.it/

Gare d’appalto ed errore materiale nella domanda telematica

Gare d’appalto ed errore materiale nella domanda telematica.

Nota di commento alla sentenza del Tar Puglia Bari n. 232/2015.

Il Tar Puglia Bari, con la Sentenza n. 232/2015, ha affrontato la questione della validità o meno della volontà di una società di partecipare a gare di appalto, nel caso in cui, durante la presentazione della domanda telematica, vi sia un errore nell’inserimento del file pdf.
Il riferimento normativo, per comprendere meglio la questione, è il D. Lgs. n 163/2006.

L’art. 38 del D. Lgs richiamato, infatti potrebbe portare a ritenere assenti i requisiti di partecipazione, non essendo stata eseguita correttamente la procedura di iscrizione al bando di gara.
Ciò discende sostanzialmente dal fatto che l’articolo in questione, fa rientrare anche “l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive” tra gli elementi per cui il concorrente dovrebbe pagare una sanzione alla cosiddetta stazione appaltante, cioè al gestore che prende in carico le iscrizioni dei partecipanti.

Il T.A.R. Puglia Bari, conformandosi ai precedenti giurisprudenziali (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, ter, 10 giugno 2015, n. 8143; T.A.R. Toscana, sez. II, 18 marzo 2015, n. 444) ha ribadito che non vi è “la carenza di un elemento essenziale” in casi come quelli descritti.
Né d’altro canto, si può parlare di disparità di trattamento.

Con la sentenza in commento, inoltre, il Tar ha chiarito che il fatto di considerare la svista nell’inserimento del file come carenza di volontà è un ” artificio retorico ” che è cosa diversa “dalla effettività dei comportamenti concreti tenuti dai partecipanti alla gara in esame”.
Di conseguenza, il cosiddetto soccorso istruttorio secondo il giudice amministrativo, non occorreva nel caso in questione, poichè la stazione appaltante aveva già il possesso di tutti i dati necessari.

Ed infatti, l’art. 18, co. 2, della L. n. 241/1990, dispone che “qualora l’interessato dichiari che fatti, stati e qualità sono attestati in documenti già in possesso della stessa amministrazione procedente o di altra pubblica amministrazione, il responsabile del procedimento provvede d’ufficio all’acquisizione dei documenti stessi o di copia di essi”.

fonte: http://www.studiocataldi.it/