Consiglio di Stato: chi va a piedi per troppo tempo perde la patente

Consiglio di Stato: chi va a piedi per troppo tempo perde la patente.

Il mancato rinnovo della patente scaduta può comportare la revisione dell’idoneità.

Non rinnovare la patente scaduta può essere un rischio in ogni caso: non solo quando si continui comunque a circolare, esponendosi al pericolo di prendere una multa, ma anche se si preferisce muoversi a piedi.

In questo caso, infatti, la motorizzazione potrebbe decidere legittimamente di sottoporre il patentato sbadato a revisione dell’idoneità.

Si pensi, infatti, che con il parere numero 596, reso dalla prima sezione del Consiglio di Stato il 2 marzo 2016, è stato considerato da respingere il ricorso presentato da un uomo che, avendo richiesto il rinnovo della patente qualche anno dopo la sua scadenza, si è visto negare il provvedimento sino a che non avesse sostenuto gli esami tecnici di idoneità.

In realtà, la valutazione dei comportamenti tenuti dal ricorrente, a sostegno del provvedimento della motorizzazione, non si è fondata, nel caso di specie, solo sul lungo lasso di tempo intercorso tra la scadenza della validità della patente e la richiesta di rinnovo. A sostegno della scelta dell’amministrazione di adottare un provvedimento di revisione della patente ai sensi dell’articolo 128 del codice della strada è derivata anche dal fatto che nei confronti dell’automobilista tra il 1999 e il 2007 erano stati adottati provvedimenti prefettizi di sospensione della patente per guida in stato di ebbrezza.

In ogni caso, con il parere in commento, i giudici del Consiglio di Stato hanno chiarito che i provvedimenti di revisione della patente sono adottati in forza del compito dell’amministrazione di tutelare la circolazione stradale e di prevenire gli incidenti. Essi non hanno finalità sanzionatorie ma, piuttosto, finalità cautelari e possono, quindi, fondarsi su qualsiasi circostanza idonea a ingenerare nell’autorità competente il dubbio circa la persistente idoneità alla guida, fondato su di una valutazione discrezionale.

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Terreni inquinati e responsabilità del proprietario incolpevole

Terreni inquinati e responsabilità del proprietario incolpevole.

Con la recente sentenza n. 4225/2015, il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla responsabilità del proprietario incolpevole di un sito contaminato.

Con una recente sentenza il Consiglio di Stato (n. 4225/2015) si è pronunciato sulla responsabilità del proprietario incolpevole di un sito contaminato, relativamente agli interventi urgenti necessari a prevenire i danni.

Ecco i principi applicativi affermati dal Consiglio di Stato:

«In particolare, può dirsi in estrema sintesi, che dalle disposizioni contenute nel ‘Codice’ del 2006 (in particolare, nel Titolo V della Parte IV) possono ricavarsi i seguenti principi applicativi:

1) il proprietario, ai sensi dell’articolo 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all’articolo 240, comma 1, lettera 1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;

2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (articolo 244, comma 2);

3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla P.A. competente (articolo 244, comma 4);

4) le spese sostenute per effettuare tali interventi potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (il quale giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (articolo 253, comma 4);

5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2).»
Ricordo che il Codice dell’ambiente non impone l’obbligo di bonifica al proprietario incolpevole, che è una sua mera facoltà, ma pone a suo carico gli oneri della bonifica effettuata dalla pubblica amministrazione qualora sia impossibile identificare il responsabile dell’inquinamento o siano impossibili azioni di rivalsa nei suoi confronti.
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, il Ministero sosteneva che il proprietario deve rispondere del danno da inquinamento che il terreno continua a procurare, e quindi aveva diffidato il proprietario ad adottare misure di sicurezza d’emergenza al fine di impedire che la contaminazione si diffondesse ulteriormente.

La tesi del Ministero non è stata accolta, in quanto il proprietario è tenuto solo a porre in essere le misure di prevenzione intese quali “iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno… in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”.
Il Ministero appellante suggeriva una ricostruzione di sistema secondo cui:

il proprietario di un bene immobile debba rispondere anche del danno da inquinamento che il terreno continua a cagionare pur dopo l’acquisto in ragione degli effetti lesivi permanenti derivanti dall’inquinamento;
il principio chi inquina, paga debba essere inteso nel senso che la locuzione chi non vada riferita solo a colui che, attraverso una condotta attiva, abbia abusato del territorio immettendo o facendo immettere materiali inquinanti, ma anche a colui che, con la propria condotta omissiva o negligente, nulla faccia per ridurre o eliminare l’inquinamento causato dal terreno di cui è titolare.
Da ultimo, il Ministero appellante osservava che, secondo l’id quod plerumque accidit, può certamente ritenersi esigibile in capo all’acquirente di un fondo potenzialmente inquinato una diligenza particolarmente qualificata nell’appurare preventivamente un possibile, pregresso inquinamento (con ogni accollo di responsabilità in caso di violazione di un siffatto obbligo di diligenza). In caso contrario, la complessiva disciplina di settore si presterebbe a comportamenti formalisticamente elusivi della normativa posta a tutela dell’ambiente.

Sono stati annullati gli atti con cui la società proprietaria era stata diffidata ad effettuare operazioni di messa in sicurezza di emergenza, di bonifica dell’area e di rimozione degli scarti e materiali di risulta (nell’ambito della sentenza in questione era stata dichiarata la responsabilità della società appellante per il riversaggio abusivo sull’area di tali materiali).

Al principio “chi inquina paga”, il quale ispira la disciplina nazionale in tema di distribuzione degli oneri conseguenti ad ipotesi di contaminazione di aree (si tratta della Parte IV – Titolo V del decreto legislativo 152 del 2006 – articoli 240 e seguenti -), anche in ragione della derivazione eurounitaria del principio medesimo (articoli 191 e 192 del TFUE), deve essere riconosciuta valenza inderogabile di normativa di ordine pubblico, in quanto tale insuscettibile di deroghe di carattere pattizio.

Laddove si ammettesse la possibilità di derogare in via convenzionale al basico criterio di distribuzione del “chi inquina paga”, si consentirebbero agevoli elusioni degli obblighi di prevenzione e riparazione imposti dalla pertinente normativa di settore.

L’ordito normativo di cui alla Parte IV – Titolo V del decreto legislativo n. 152 del 2006 comporta certamente che le misure di prevenzione e di riparazione ivi disciplinate trovino applicazione anche nei confronti dei responsabili di eventi di inquinamento verificatisi anteriormente all’entrata in vigore della medesima Parte IV (secondo un criterio di individuazione e una scelta di politica legislativa che non presentano profili di incongruità o irragionevolezza, anche alla luce del preminente valore costituzionale dei beni oggetto di tutela). Depone univocamente in tal senso la disciplina in tema di contaminazioni cc.dd. ‘storiche’ di cui ai commi 1 e 11 dell’articolo 242 del ‘Codice’.

Ciò conferma che, in base alle scelte normative intervenute fra il 1997 e il 2006, ben potesse essere individuato come ‘responsabile dell’inquinamento’ un operatore (o i suoi aventi causa) il quale avesse realizzato le condotte foriere di inquinamento in un’epoca anteriore a quella di entrata in vigore della nuova disciplina in tema di distribuzione della responsabilità per danno ambientale, la quale può pertanto trovare piena e puntuale applicazione nell’ambito della presente vicenda.

La questione della possibilità di imporre al proprietario incolpevole dell’inquinamento di un’area specifiche misure di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza.

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Tar Lazio: basta il voto numerico negli scritti dell’esame di avvocato

Tar Lazio: basta il voto numerico negli scritti dell’esame di avvocato.
 
In attesa dell’entrata in vigore della previsione della legge n. 247/2012 va confermata la giurisprudenza tradizionale del Consiglio di Stato sul tema.
 
Va respinto il ricorso dell’aspirante avvocato che lamenta l’insufficienza del voto numerico e la mancanza di un’effettiva motivazione, la genericità dei criteri di correzione e la palese insufficienza del tempo dedicato alla revisione e valutazione degli elaborati.
 
Nonostante le disposizioni della legge n. 247/2012, va condivisa giurisprudenza prevalente sul tema stante la scelta del legislatore di differire l’entrata in vigore del provvedimento.
 
Lo ha stabilito il TAR Lazio, sez. II Ter, nella sentenza n. 2162/2016, sul ricorso promosso da una candidata all’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.
La ricorrente si duole dell’illegittima omessa ammissione alle prove orali dell’esame, avendo conseguito tre valutazioni negative con 25 punti per ogni prova scritta.
 
La candidata deduce il difetto di motivazione, l’assoluta genericità dei criteri di correzione, il difetto del profilo procedurale, la illogicità ed irragionevolezza del giudizio negativo. secondo le quali le novità della novella di cui alla l. 31.12.2012, n. 247, art. 46, comma 5, in punto di motivazione mediante annotazione diretta sull’elaborato da esaminare, pur non essendo ancora entrata in vigore ha efficacia ermeneutica atta ad orientare l’interpretazione del quadro legislativo precedente.
 
A sostegno della propria tesi, parte ricorrente invoca precedenti specifici dello stesso TAR Lazio: in effetti il Collegio conferma che con tali provvedimenti si era intrapreso uno sforzo di rivedere criticamente il sistema di elaborazione dell’esame degli elaborati delle prove scritte dell’esame di abilitazione allo svolgimento della professione legale, basandosi sul principio cardine della valenza interpretativa delle nuove norme in relazione alla previgente disciplina.
 
Tuttavia, gli approfonditi sforzi ermeneutici, volti in sostanza ad anticipare gli effetti della riforma per rispondere all’esigenza fortemente avvertita di maggiore trasparenza nelle valutazioni ed uniformità di giudizio, non sono valsi a superare l’orientamento, di segno del tutto opposto, del giudice di appello.
 
Il Consiglio di Stato, ancorché in sede cautelare, ha ritenuto in particolare che nessun rilievo può annettersi alla disposizione dell’art. 46 comma 5 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 in funzione del tenore del successivo art. 49, che tiene ferma l’applicabilità delle norme previgenti “…sia per quanto riguarda le prove scritte e le prove orali, sia per quanto riguarda le modalità di esame… ” per i primi due anni successivi all’entrata in vigore della legge.
 
Il TAR sceglie quindi di uniformarsi a tale chiaro indirizzo evidenziando che il legislatore ha indubbiamente cercato di rimediare all’esigenza di scissione tra la dimensione numerica del criterio di valutazione che avrebbe solo valore descrittivo del giudizio e le ragioni vere e proprie di quest’ultimo. Oltre ad aver modificato la norma di riferimento, ne ha però anche differito l’entrata in vigore per un determinato periodo di tempo, così esprimendo una scelta di equilibrio tra le esigenze di maggiore
trasparenza cui si è accennato, e quelle di maggiore efficienza e speditezza della correzione degli elaborati che il meccanismo del voto numerico ha sin’oggi perseguito.
 
La giurisprudenza tradizionale sul tema va dunque confermata, posto che nel sistema di esame che si fonda (anche per l’anno interessato dalla ricorrente) sul sistema tradizionale, il voto numerico è esso stesso il giudizio, e la motivazione di esso è data dal riferimento ai criteri predeterminati dalla stessa Commissione.
 
Nei concorsi pubblici, prosegue il TAR, la stringatezza dei tempi di correzione degli elaborati costituisce vicenda normalmente sottratta al controllo di legittimità; la relativa censura deve essere ritenuta inammissibile, ove sia prospettata non in relazione ad un dato assoluto (tempo effettivamente occorso), ma ad un dato relativo (tempi medi di correzione), facendo risaltare l’assenza di alcuna prova o indizio dell’asserita incongruità del tempo occorso alla correzione delle prove della parte interessata, risultando dai verbali solo l’indicazione del tempo occorso alla correzione degli elaborati svolti da un certo numero di candidati.
 
Bisogna quindi confermare l’inammissibilità della censura avanzata nei ricorsi proposti avverso gli esiti delle procedure concorsuali volta a denunciare i tempi medi impiegati dalla competente commissione per l’esame degli elaborati scritti, poichè è impossibile stabilire quali e quanti candidati hanno fruito di maggiore o minore attenzione, visto che la congruità del tempo impiegato va valutata anche con riferimento alla consistenza degli elaborati ed alle problematiche di correzione dagli stessi emergenti, con la conseguenza che ai tempi medi impiegati non può riconoscersi alcun decisivo rilievo inficiante il procedimento valutativo.
 
Ancora, prosegue il TAR, per la legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, di apposizione di glosse, non vi è necessità di segni grafici o indicazioni di qualsiasi tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi.
 
Il vizio di illogicità o di manifesta incongruità del giudizio espresso numericamente sulle tracce della candidata odierna ricorrente si sostanzia in una domanda di revisione del punteggio nel merito di esso, con la conseguenza che tende ad ottenere la sovrapposizione di un nuovo giudizio da parte del giudice amministrativo in sostituzione della commissione d’esame e ciò vale in ordine anche alla sola delibazione del vizio ai fini dell’accoglimento per il riesame da parte di diversa commissione.

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Aggiudicazione dell’appalto: da quando decorre il termine per impugnare gli atti

Aggiudicazione dell’appalto: da quando decorre il termine per impugnare gli atti.

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato conferma, con la sentenza n. 119 depositata il 18/01/2016, l’orientamento predominante a proposito del termine per impugnare gli atti relativi ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.

Nella fattispecie sottoposta al suo esame, infatti, il Supremo Organo di Giustizia Amministrativa ha respinto l’appello proposto da una società avverso la sentenza di primo grado (n. 4409/2015 emessa dal T.A.R. Napoli) mediante la quale il ricorso era stato dichiarato irricevibile per tardività.

A tale conclusione il Tribunale campano era giunto rilevando come l’atto introduttivo del giudizio fosse stato notificato oltre i ristretti termini previsti all’uopo dalla normativa (ossia, come noto, entro trenta giorni dal momento della conoscenza del provvedimento ritenuto lesivo) atteso che la ricorrente, poiché prima di ricevere la comunicazione formale che l’aveva resa edotta dell’esito della procedura di selezione cui aveva partecipato aveva chiesto alla stazione appaltante di operare in autotutela rimuovendo il provvedimento di aggiudicazione definitiva, aveva con ciò implicitamente ammesso che l’impresa stessa avesse già avuto modo di conoscere almeno uno dei motivi per i quali riteneva illegittimo il provvedimento medesimo poi impugnato.

In particolare, e la circostanza ha avuto effetto dirimente per decidere la controversia, è risultato che tra l’istanza inoltrata per procedere in autotutela e la notificazione del ricorso introduttivo innanzi al T.A.R. partenopeo fossero trascorsi più di trenta giorni.

Appurato ciò, sia in primo grado che in appello i Giudici Amministrativi hanno rigettato i ricorsi, aderendo all’orientamento giurisprudenziale che, in tema di applicazione dell’art. 79 D.Lgs. 163/2006, rubricato “Informazioni circa i mancati inviti, le esclusioni e le aggiudicazioni”, combinato coi principi generali del processo amministrativo ed in particolare con quanto previsto dall’art. 41, comma 2, D.Lgs. 104/2010 (c.d. “codice del processo amministrativo”), suggerisce di far decorrere il termine a disposizione per l’impugnazione del provvedimento a partire dal momento in cui il soggetto ne ha avuto conoscenza, a prescindere dalle concrete modalità utilizzate dall’Amministrazione per renderlo noto.

Su quest’ultimo punto si deve rammentare la disposizione riportata dall’art. 120, comma 5, c.p.a., dedicato proprio alle procedure di affidamento dei contratti pubblici, il quale stabilisce che “per l’impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto. Per il ricorso incidentale la decorrenza del termine è disciplinata dall’articolo 42”.

Occorre a questo punto sottolineare che i commi 5 e 5-bis dell’art. 79 suddetto prescrivono dei precisi adempimenti che le stazioni appaltanti debbono rispettare in tema di informazioni relative ai contratti pubblici, come ad esempio la necessità che queste siano effettuate secondo le modalità ivi stabilite (lettera raccomandata, fax o posta elettronica certificata) e, soffermandosi in particolare sulla comunicazione di avvenuta aggiudicazione definitiva, decretano che questa sia inoltrata ai partecipanti rimasti in gara entro cinque giorni dalla sua adozione.

Sennonchè si è sviluppato un sostanzioso filone interpretativo, confermato da numerose statuizioni, in base al quale si è affermato, sulla scorta dell’art. 120, comma 5, c.p.a. sopra riportato, come il termine per proporre l’impugnazione debba considerarsi decorrente dal momento in cui il concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico abbia avuto contezza dei provvedimenti astrattamente lesivi della propria posizione, e quindi a prescindere dall’eventuale ricezione della comunicazione enunciata nell’art. 79 D.Lgs. 163/2006.

Si è ad esempio stabilito che la presenza di un rappresentante del concorrente, munito di apposita delega rilasciatagli dal titolare della partecipante, alla seduta nel corso della quale si è assunto il provvedimento lesivo, sia idonea a ritenere conosciuto il provvedimento stesso, evitando pertanto la necessità che la stazione appaltante invii poi all’offerente la relativa comunicazione.
Si vedano tra gli altri Cons. di Stato, Sez. III, sent. n. 3126 del 18/06/2015, laddove si legge “la Sezione richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che ha rilevato: “La piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione implica la decorrenza del termine decadenziale a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, co. 5, del codice dei contratti pubblici. Merita, infatti, condivisione l’indirizzo ermeneutico alla stregua del quale l’art. 120 co. 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione “esclusive” e “tassative”, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita, come accaduto nel caso di specie, con forme diverse di quelle dell’art. 79 cit.” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2013, n. 1204; sez. III, 22 agosto 2012, n. 4593; sez. VI, 13 dicembre 2011, n. 6531; V, 6284 del 27 dicembre 2013)”; nello stesso senso, tra le molte, anche Cons. di Stato, Sez. III, sent. n. 4982 del 30/10/2015; id., Sez. VI, sent. n. 6156 del 15/12/2014.

Si segnala anche Cons. di Stato, Sez. IV, sent. n. 740 del 17/02/2014, in cui addirittura si evidenzia la possibilità che il provvedimento si presume conosciuto anche se il soggetto presente a quella seduta della commissione giudicatrice sia privo di apposita delega: “per la piena conoscenza degli atti di gara da parte di un’impresa è dunque sufficiente che alla seduta della Commissione giudicatrice sia presente un soggetto che – a prescindere dal conferimento di specifica e valida delega ovvero dall’esercitare una specifica carica sociale — si qualifichi come rappresentante della stessa ed, in conseguenza, venga indicato così nel relativo verbale.

Ciò perché in tale veste egli ha comunque la possibilità di presentare osservazioni, contestazioni, o comunque di far luogo a specifiche iniziative a tutela delle ragioni dell’impresa a fronte delle specifiche determinazioni assunte dall’organo di gara (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V 14 maggio 2013 n. 2614)”.

Tornando all’esame della sentenza in rassegna, si evidenzia che anche in questo caso si è fatta applicazione dei principi summenzionati dato che, ancorchè non si fosse in presenza di una accertata presenza di qualche delegato della concorrente alle operazioni di gara, si è nondimeno confermata l’irricevibilità dell’originario ricorso in virtù dell’incontestabile conoscenza già acquisita del provvedimento di aggiudicazione definitiva, preso atto del contenuto dell’istanza per suscitare l’autotutela della stazione appaltante, quest’ultima inoltrata più di trenta giorni prima della notificazione del gravame.

Ragion per cui il ricorso avrebbe dovuto essere proposto entro il predetto termine decadenziale, calcolato dal giorno della presentazione dell’istanza e non da quello della ricezione della notizia, da parte della P.A. indicente la gara, della decretata aggiudicazione definitiva.

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Società partecipate: divieto di erogare somme se la P.A. non rispetta la trasparenza

Società partecipate: divieto di erogare somme se la P.A. non rispetta la trasparenza.

Gli enti di diritto privato in controllo pubblico (cosiddette partecipate) sono divenuti destinatari diretti delle norme sulla trasparenza in seguito alla riformulazione dell’art. 11 del D. Lgs. n. 33/2013 (ambito soggettivo di applicazione del decreto trasparenza), per effetto dell’art. 24 bis del D.L. n. 90/2014.

Al fine di rendere effettivo il sistema di vigilanza, l’art 43 del D.Lgs. n. 33/13 individua, all’interno di ogni ente, un responsabile della trasparenza, con il compito di segnalare al vertice politico dell’amministrazione, all’OIV (Organismo Indipendente di Valutazione), all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) e all’ufficio di disciplina (ai fini dell’attivazione dell’eventuale responsabilità disciplinare), i casi di inadempimento o di adempimento parziale agli obblighi di pubblicazione.

L’art. 22, c. 4, del d.lgs. n. 33/2013 prevede una particolare sanzione nel caso di violazione degli obblighi sulla trasparenza, ovvero il divieto in capo alle amministrazioni pubbliche di erogare somme a qualsiasi titolo in favore di enti pubblici vigilati, enti di diritto privato in controllo pubblico e società partecipate. Il divieto si applica anche nei casi in cui l’omessa o incompleta pubblicazione dei dati indicati nel comma 2 del sopracitato articolo 22, dipendano dalla mancata comunicazione degli stessi dati da parte degli enti e delle società, qualora non siano già nella diretta disponibilità delle amministrazioni (ANAC, Orientamento n. 24 del 23 settembre 2015).

Ai sensi dell’art. 22, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 33/2013, l’amministrazione controllante provvede alla pubblicazione ed all’aggiornamento annuale dei dati relativi alla ragione sociale, alla misura dell’eventuale partecipazione dell’amministrazione, alla durata dell’impegno, all’onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l’anno sul bilancio dell’amministrazione, al numero dei rappresentanti dell’amministrazione negli organi di governo, al trattamento economico complessivo spettante a ciascuno di essi, ai risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari, degli enti controllati di riferimento. Sono altresì pubblicati i dati relativi agli incarichi di amministratore dell’ente ed il relativo trattamento economico complessivo. Nel sito dell’amministrazione pubblica e’ inserito il collegamento con i siti istituzionali degli enti controllati, nei quali sono pubblicati i dati relativi ai componenti degli organi di indirizzo e ai soggetti titolari di incarico.

Gli enti di diritto privato in controllo pubblico (cosiddette partecipate) sono a loro volta soggetti agli obblighi di pubblicazione di cui agli articoli 14 e 15 del d.lgs. n. 33/2013, con riferimento, in particolare, ai titolari di incarichi politici (art. 14 d.lgs. n. 33/2013).

Gli enti controllati sono pertanto tenuti alla pubblicazione dei seguenti documenti:

a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;

b) il curriculum;

c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;

d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;

e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;

f) le dichiarazioni e le attestazioni sulla situazione reddituale e patrimoniale.
Inoltre, con riferimento agli incarichi dirigenziali e di collaborazione o consulenza, a qualsiasi titolo conferiti (art. 15 d.lgs. n. 33/2013), devono essere pubblicati:

1) gli estremi dell’atto di conferimento dell’incarico;

2) il curriculum vitae;

3) i dati relativi allo svolgimento di incarichi o la titolarita’ di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione o lo svolgimento di attivita’ professionali;

4) i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro, di consulenza o di collaborazione, con specifica evidenza delle eventuali componenti variabili o legate alla valutazione del risultato.

Sulla base del tenore letterale dell’art. 22, c. 4, del d.lgs. n. 33/2013, non è tuttavia del tutto chiaro se l’applicazione del divieto di erogare somme da parte dell’ente controllante si riferisca solo all’omessa indicazione dei dati di cui all’art. 22, c. 2, del d.lgs. n. 33/2013 da parte della medesima amministrazione, o se debba applicarsi anche all’ipotesi di cui all’art. 22 c. 3 del d.lgs. n. 33/2013, per l’omessa pubblicazione dei dati di cui agli articoli 14 e 15 del d.lgs. n. 33/2013, da parte dell’ente controllato.

Nel primo caso un’interpretazione restrittiva dell’art. 22, c. 4, del d.lgs. n. 33/2013, ai soli fini dell’applicazione del relativo divieto, non comporterebbe l’adempimento di alcun onere diretto di pubblicazione da parte dell’ente controllato. L’ente controllante dovrebbe, infatti, procedere autonomamente a pubblicare i dati di ciascun ente controllato, relativi alla ragione sociale, alla misura della eventuale partecipazione dell’amministrazione, alla durata dell’impegno, all’onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l’anno sul bilancio dell’amministrazione, al numero dei rappresentanti dell’amministrazione negli organi di governo, al trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante, ai risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari, agli incarichi di amministratore dell’ente ed al relativo trattamento economico complessivo.

Nel secondo caso, un’interpretazione più coerente con la “ratio” del dettato normativo, imporrebbe invece anche agli enti controllati (cosiddette partecipate) di adempiere, sul proprio sito istituzionale, agli obblighi di pubblicazione di cui agli artt. 14 e 15 del d.lgs. n. 33/2013, sopra indicati, per evitare l’applicazione del divieto di cui all’art. 22, c. 4, del d.lgs. n. 33/2013. Su tale seconda interpretazione si è orientata l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC – Orientamento n. 24 del 23 settembre 2015) concludendo che: “Prima dell’erogazione di somme a qualsiasi titolo nei confronti di uno degli enti e delle società di cui all’art. 22, c. 1, lett. da a) a c) del d.lgs. 33/2013, le amministrazioni sono tenute a verificare, consultando il RT (Responsabile Trasparenza) o l’OIV (Organismo Indipendente di Valutazione), cui spetta l’attestazione della pubblicazione dei dati, se effettivamente tutti i dati previsti dall’art. 22 del d.lgs. n. 33/2013 siano stati pubblicati sul proprio sito e se siano stati pubblicati i dati di cui agli articoli 14 e 15 sul sito degli enti e delle società vigilati, controllati e partecipati come previsto dall’art. 22. c. 3.”.

Il dichiarato intento del d.lgs. n. 33/2013 è del resto quello di migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche e combattere la corruzione attraverso la trasparenza delle informazioni, così come emerge inequivocabilmente dal testo di legge.

Recita infatti l’art. 1, c. 1, del d.lgs. n. 33/2013 che: “la trasparenza e’ intesa come accessibilita’ totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attivita’ delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.” La trasparenza nelle informazioni, concorre inoltre ad attuare i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino (art. 1, c. 2, del d.lgs. n. 33/2013).

Si pone, infine, un problema di individuazione delle autorità in grado di far rispettare il divieto di cui all’art. 22, c. 4, del d.lgs. n. 33/2013. La devoluzione delle controversie relative agli obblighi di trasparenza è attribuita alla giurisdizione amministrativa, ai sensi di quanto previsto dall’art. 50 del d.lgs. n. 33/2013.

Non è stato tuttavia chiarito quali siano precisamente le autorità deputate all’attività di vigilanza, all’istruttoria ed al rispetto delle sanzioni e dei divieti da applicare previsti dal d.lgs. n. 33/2013.

fonte: http://www.altalex.com/ Articolo di Federico Donini

Patente di guida: per la revoca sono necessari tempi certi

Patente di guida: per la revoca sono necessari tempi certi.

La revoca della patente, disposta per aver cagionato un incidente stradale in guida in stato di ebbrezza, non può avere durata superiore al triennio e decorre dal momento dell’accertamento dell’infrazione.

E’ quanto emerge dall’ordinanza del T.A.R. Lombardia, Sez. I, Brescia, del 2 febbraio 2016, n. 117.

Il caso vedeva un conducente aver cagionato un incidente stradale mentre si trovava alla guida del proprio mezzo in stato di ebbrezza, con conseguente condanna ai sensi dell’art. 186 cod. strad. e revoca automatica della patente di guida.

I giudici amministrativi si pongono in contrasto con la recente circolare n. 938 del 18 gennaio 2016, del Ministero dell’Interno con la quale si precisava che la data di accertamento del reato, dalla quale decorre il triennio di interdizione alla guida, deve essere intesa come data di passaggio in giudicato della sentenza penale e non come momento in cui avviene l’accertamento dell’infrazione.

Secondo il T.A.R. Lombardia, infatti, la durata dell’inibizione alla guida, pari a tre anni in base all’art. 219, comma 3-ter cod. strad., è collegata espressamente alla data di accertamento del reato, ovvero alla data di deposito della sentenza definitiva, ma sul punto è necessario operare un coordinamento tra la sospensione disposta dalla Prefettura (ovvero misura cautelare che interviene nell’immediatezza del fatto) e la revoca disposta dal giudice penale.

Affermano i giudici che “Il tempo di inibizione collegato alla revoca può infatti essere inteso come la durata massima della sospensione. Pertanto, il cumulo di queste sanzioni non può eccedere il risultato sostanziale di quella più grave, ossia la revoca”.

fonte: http://www.altalex.com/

Tar Lazio: accesso agli atti anche sui documenti sotto sequestro

Tar Lazio: accesso agli atti anche sui documenti sotto sequestro.

La segretezza delle indagini non impedisce l’ostensione dell’atto al privato che ne fa istanza. L’ente dovrà chiederne copia al giudice.

L’interessato potrà accedere all’atto dell’amministrazione competente anche se questo è stato oggetto di sequestro: la segretezza delle indagini non giustifica il legittimo diniego opposto al privato, poiché l’ente dovrà richiedere il documento “incriminato” all’autorità giudiziaria e poi sarà questa a decidere se la domanda merita o meno accoglimento.

Lo ha disposto il Tar Lazio, nella sentenza 7/2016, in un giudizio coinvolgente diverse aziende del Salentino coinvolte nel caso Xylella Fastidiosa, batterio killer che ha costretto all’abbattimento di numerose piante di ulivo nel territorio pugliese.

I ricorrenti si dolgono dell’illegittimità del mancato accesso alle documentazioni inerenti l’infestazione del patogeno indicato, ritenendoli necessari alla propria difesa in giudizio in altro procedimento.

Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali aveva negato l’ostensione degli atti allegando di esservi impedito dall’avvenuto assoggettamento dei documenti richiesti a sequestro probatorio, in originale e senza che siano rimaste delle copie nella disponibilità dell’Amministrazione, da parte dell’Autorità Giudiziaria.

Il TAR evidenzia che la giurisprudenza è orientata nel ritenere che “il regime di segretezza di cui all’art. 329 c.p.p. non costituisce un motivo legittimo di diniego all’accesso dei documenti, fintantoché gli stessi siano nella disponibilità dell’Amministrazione e il giudice che conduce l’indagine penale non li abbia acquisiti con uno specifico provvedimento di sequestro”.

Nel caso di specie, risulta dal verbale di sequestro probatorio che la documentazione d’interesse è stata acquisita in originale e senza che siano state lasciate copie nella disponibilità dell’Amministrazione e che i medesimi documenti “saranno custoditi a cura” del Comando procedente “a disposizione dell’A.G. mandante”.
In base a ciò, risulta comprovato che l’Amministrazione intimata non è nella detenzione materiale dei documenti di cui è richiesto l’accesso.

Tuttavia, il Tribunale amministrativo osserva che, ai sensi dell’art. 258 c.p.p., “l’Autorità Giudiziaria può fare estrarre copia degli atti e dei documenti sequestrati, restituendo gli originali, e, quando il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare la cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente copia autentica a coloro che li detenevano legittimamente”.

Tale estrazione è consentita, ovviamente, in relazione alle specifiche esigenze di segretezza degli atti di indagine che solo l’Autorità Giudiziaria procedente può valutare in concreto, soppesando i diversi interessi coinvolti e la relativa richiesta è proponibile, a sua volta, solo da parte di coloro che “detenevano legittimamente” gli atti sequestrati, ovvero, nel caso di specie, l’Amministrazione destinataria della richiesta di accesso ex lege 241/90.
Pertanto, “va ritenuto che l’effetto impeditivo al rilascio dei documenti richiesti scaturente dal provvedimento giudiziario di sequestro ex art. 253 e ss. c.p.p. si verifica solo allorchè l’Amministrazione, avendone fatto richiesta, non abbia ottenuto dall’A.G. procedente l’estrazione di copie consentita dall’art. 258 c.p.p.”.

Infatti, poiché la richiesta di estrazione di copie dei documenti sequestrati (ex art. 258 c.p.p.) è una facoltà di chi li deteneva legittimamente, quando l’Amministrazione sequestrataria riceve una istanza di accesso agli atti (sequestrati) da parte di un privato avente titolo a richiederlo, l’evasione dell’istanza comporta “l’obbligo, esigibile in buona fede e secondo diligenza, di esercitare tale facoltà allo scopo di porre in essere quel diligente sforzo possibile secondo le circostanze concrete per soddisfare l’interesse legittimo della parte interessata ad ottenere la conoscenza dei dati e delle informazioni cui ha titolo”.

Ciò avviene, naturalmente, a condizione che sia stato verificato, in capo al richiedente, il possesso delle condizioni soggettive legittimanti ad effettuare l’accesso agli atti e questo risulti impedito solamente dalla circostanza della sussistenza del sequestro, tutte condizioni che, nel caso di specie, non sono poste in dubbio e pertanto determinano l’accoglimento del ricorso.

fonte: http://www.studiocataldi.it/

Il Consiglio Stato: no agli spot commerciali dei medici

Il Consiglio Stato: no agli spot commerciali dei medici.

Stop alle promozioni commerciali da parte di medici e dentisti.

Il Consiglio di Stato ha annullato «le decisioni dell’AgCom finalizzate a liberalizzare la pubblicità commerciale dei medici». Lo rende noto l’Ordine dei medici di Milano, secondo cui è stato così «tutelato il diritto costituzionale alla salute dei cittadini garantito dai Codici deontologici».

Nel dettaglio, spiega l’Ordine di categoria, il Consiglio di Stato «ha dato ragione ai ricorsi presentati dalla Federazione degli Ordini (Fnomceo) affiancata dagli Ordine del Medici di Milano e Bologna, contro l’ammenda di 800mila euro inflitta alla fine del 2014 da AgCom per un articolo contenuto nel codice deontologico dei medici riguardante il divieto all’utilizzo della pubblicità commerciale da parte degli iscritti e, in particolare, dei Medici Odontoiatri».

«La decisione dell’AgCom, mediante un’interpretazione ingiustificatamente estensiva – dice Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine di Milano – avrebbe limitato fortemente la possibilità di intervento degli Ordini in materia di trasparenza e veridicità della pubblicità effettuata da propri iscritti, in netto conflitto con il diritto alla salute dei cittadini».

Andrea Senna, Presidente della Commissione Albo Odontoiatri dello stesso Ordine, commenta: «In questi anni abbiamo assistito a promozioni in campo odontoiatrico inverosimili in termini di prezzi e di prestazioni, che sicuramente disorientano il cittadino, mettendone a rischio la salute. Il diritto alla salute va tutelato in ogni modo e deve prevalere su logiche di libero mercato e di profitto».

«Siamo consapevoli – conclude Rossi – che a fronte dei cambiamenti culturali e dei mezzi di informazione di massa, il medico è sollecitato a modificare le tradizionali forme di comunicazione, ma proprio per questo, come Ordine, sosteniamo con forza il nostro diritto a vigilare nell’interesse della salute dei singoli e della collettività».

fonte: http://www.ilsole24ore.com/

Il Consiglio di Stato equipara le scuole paritarie

Il Consiglio di Stato equipara le scuole paritarie.

Importante pronunciamento del Consiglio di Stato per il quale adesso le scuole paritarie hanno gli stessi diritti a percepire i contributi statali indipendentemente dalla natura dell’ente gestore. Condannato il MIUR.

Il Consiglio di Stato con la Sentenza 292 del 30 gennaio 2016 ha dichiarato illeciti i criteri e i parametri adottati dal MIUR per l’assegnazione dei contributi alle scuole paritarie in quanto tali criteri non si fondano su una valutazione oggettiva ma solo soggettiva.

Per il Consiglio di Stato le Scuole paritarie senza fini di lucro non sono quelle gestite da soggetti giuridici senza fini di lucro, secondo il predetto criterio soggettivo adottato dal MIUR, ma sono quelle che svolgono oggettivamente il servizio scolastico senza fini di lucro, ovvero senza corrispettivo (vale a dire a titolo gratuito) o dietro versamento di un corrispettivo solo simbolico, per l’attività didattica prestata, tale comunque da coprire solo una frazione del costo effettivo del servizio.

Non trovano quindi fondamento giuridico oggettivo i criteri di attribuzione dei fondi statali adottati dal MIUR fino ad oggi perché fondati solo sulla base di una valutazione soggettiva dell’ente gestore in quanto le scuole gestite da enti senza scopo di lucro e dagli enti con scopo di lucro sono da equiparare nella concessione di aiuti di Stato quali contributi diretti o indiretti (esenzioni fiscali o analoghe) quando richiedono corrispettivi (le rette) per le prestazioni didattiche. Entrambe quindi si configurano a tutti gli effetti come attività commerciali e come tali vanno considerate anche in questa circostanza.

Si tratta di una sentenza destinata a modificare sostanzialmente tutta la normativa relativa alla distribuzione dei contributi statali alle scuole paritarie avendo questa valore ordinativo, in quanto il giudice impone all’autorità amministrativa l’esecuzione della stessa. Ciò a significare che lo stesso decreto ministeriale, recentemente firmato dal Ministro Giannini dovrà essere rivisto alla luce di quanto sentenziato dal Consiglio di Stato.

Infine il giudice ha condannato il MIUR a liquidare all’ANINSEI – promotrice del ricorso – le spese legali, i diritti e gli onorari dei due gradi di giudizio, per un importo complessivo di 5.000,00 euro.

fonte: http://www.flcgil.it

Università, Tar boccia numero chiuso: 8.000 studenti in più a Medicina

Università, Tar boccia numero chiuso: 8.000 studenti in più a Medicina.

La sezione terza bis del Tar del Lazio ha accolto un maxi ricorso di circa 8.000 studenti che, non avendo superato il test d’ingresso alla facoltà di Medicina, hanno deciso di adire le vie legali per ottenere l’iscrizione.

“E’ una vittoria epocale”, dice l’avvocato Michele Bonetti che con il collega Santi Delia ha assistito i ragazzi, coordinati e sostenuti dall’Unione degli Universitari (Udu).

Il maxi ricorso, spiega il legale, è stato spacchettato in diversi procedimenti e accolto “con una quarantina di sentenze definitive del Tar, le più consistenti emanate in questi ultimi giorni.
Si tratta di ricorsi per l’iscrizione all’anno 2014/2015. L’ultima volta che ci fu un numero così consistente di ricorsi accolti – continua Bonetti – il ministero dell’Istruzione dovette cambiare la legge. Parliamo del 1999.

Una cosa è certa: questa vittoria deve indurre il legislatore a cambiare il sistema. Non si può andare avanti a colpi di sentenze sul diritto allo studio”. Con le sentenze questi circa 8.000 studenti diventano quindi a tutti gli effetti iscritti regolarmente al corso di studi di Medicina.

Molto soddisfatto Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell’Udu, che in una nota afferma: “Sono sentenze storiche che segnano un passo avanti decisivo nella battaglia contro questo sistema di accesso e rappresentano la migliore risposta a chi vorrebbe una riduzione dei posti messi a bando per il prossimo anno accademico: e’ ormai evidente che il numero chiuso non funzioni”.

fonte: www.rainews.it